Forse mai come in questi ultimi mesi si è parlato tanto in Italia di cambiamento.
Non c’è personaggio pubblico che ultimamente non abbia detto che in Italia serve cambiare le cose.
C’è però un piccolo particolare: ognuno pensa ai cambiamenti di sua convenienza (o a quelli che interessano solo ad una piccola parte degli italiani), nessuno che pensi a quei cambiamenti che servono alla stragrande maggioranza dei cittadini di questo Paese.
Si tratta del solito vecchio scontro tra “interessi particolari” e “interessi generali”, sempre risoltosi a favore dei primi.
Nessuno, per esempio, che dica di voler cambiare la distribuzione del carico fiscale Irpef in Italia con una più equa, che tenga conto della differente posizione in cui si trovano gli italiani per i quali il pagamento di questa tassa avviene alla fonte (a cura del loro sostituto d’imposta) rispetto a quelli che invece l’Irpef la pagano sul reddito che dichiarano di possedere.
L’iniquità di un tale sistema è del tutto evidente: da una parte il reddito sul quale è calcolata (e pagata) l’imposta è certo, dall’altra è presunto (quello dichiarato è quasi sicuramente inferiore a quello realmente posseduto).
Il tutto risulta poi surreale se si tiene conto del fatto che tutto ciò avviene in un Paese che si caratterizza per una macchina dello Stato assolutamente inefficiente.
Nessuno (per fare altri esempi) che parli di ridurre drasticamente la differenza tra quanto costa un dipendente e quanto questo si mette in tasca a fine mese, nessuno che parli di affidare ad uffici pubblici competenze che oggi sono esclusivo appannaggio dei notai, nessuno che parli di eliminare i cartelloni pubblicitari che deturpano le nostre città, nessuno che parli di ridurre le interruzioni pubblicitarie che hanno ucciso i film trasmessi in televisione, ecc. ecc. (l’elenco sarebbe lungo).
Perché nessuno parla di questi “cambiamenti”?
Il fatto è che nel nostro Paese il cambiamento (intendo quello vero, quello che guarda agli interessi generali, non a quelli particolari) è sempre e solo evocato a parole, mai realizzato, va bene come oggetto di dibattiti, di seminari, di campagne elettorali.
Chiacchiere, nient’altro.
Qui non si tratta di cambiare il direttore d’orchestra (o magari qualcuno degli orchestrali), qui si tratta di cambiare genere musicale.
Ma per quale motivo siamo costretti a sentire sempre la stessa musica?
Secondo me, quello che da noi rende impraticabile il cambiamento è che chi lo proponesse penserebbe di realizzarlo col consenso generale, anche con quello di chi dal cambiamento verrebbe seriamente danneggiato.
A conferma del fatto che a prevalere in questo Paese sono sempre i cretini.
Pensare, per esempio, di fare una serie legge sul conflitto d’interessi cercando l’accordo di chi da quella legge verrebbe colpito non vuol dire solo evocare qualcosa di irrealizzabile, vuol dire semplicemente essere imbecilli.
Il problema è che gli italiani, come diceva Leo Longanesi, vogliono fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri.