Magazine Diario personale
Philip Roth
Il teatro di Sabbath
Einaudi
Traduzione di Stefania Bertola
Voto: 9½
Domanda: è possibile scrivere un libro (quasi) tutto basato sull’erotismo e la voglia sfrenata e inestinguibile di sesso, senza far pensare nemmeno per un istante alla banalità, alla stupidità oltraggiosa, alla goffa insulsaggine, alla sciatteria, alla noia delle 50 sfumature di stoca***?Risposta: sì, se sei uno dei migliori Scrittori di sempre. Sì, se ti chiami Philip Roth. Sì, se farcisci la storia con una miliardata di sfumature d’intelligenza. Poi naturalmente la storia, e il suo protagonista, possono piacere o non piacere per una questione di gusti e di sensibilità (io stesso ho sempre compatito i figomani, quei poveracci convinti che l’unica cosa che conta nella vita sia il sesso, e se ogni tanto pensi anche a qualcos’altro ti danno del “poco sveglio”, loro a te!) ma non c’è dubbio che sia scritta da dio (e che comunque il protagonista sia molto più, di un semplice ottuso figomane).
In una delle scene clou del romanzo, l’ultrasessantenne Morris “Mickey” Sabbath, tornato a New York per il funerale di un amico suicida, si fa sorprendere nella vasca da bagno dal suo migliore amico Norman, che lo sta ospitando e gli ha appena offerto aiuto, con in mano una foto della giovanissima figlia di lui, e il pene eretto che spunta dall’acqua. Norman non gli fa nessuna scenata e non lo sbatte fuori. Norman capisce (o meglio, fa finta di non capire fino in fondo). Però si fa ridare la foto. “Sarebbe un peccato” dice Norman “se si bagnasse”. Dopodiché Mickey, rimasto solo, se ne va tutto sgocciolante a recuperare la foto nella camera della ragazza, ritorna a immergersi nella vasca e ricomincia da dov’era stato interrotto.
Un altro grande autore, Jonathan Franzen, che Roth non ha mai fatto mistero di considerare un suo “nemico”, dice di provare “tanta gratitudine” per questo romanzo così “intrepido e feroce”, citando proprio questa scena, e poi quella in cui Sabbath, ritrovandosi in mano un bicchiere di plastica, decide di umiliarsi andando a chiedere l’elemosina nella metropolitana. “Sono felice” dice Franzen nel suo ultimo (a sua volta meraviglioso) libro Più lontano ancora, “di indicare la crudele ilarità del Teatro di Sabbath come una correzione e un rimprovero al sentimentalismo di certi giovani scrittori americani e di certi critici non tanto giovani che sembrano convinti, a dispetto di Kafka, che fare letteratura significhi scrivere cose carine”.
Ma ci sono anche critici che capiscono qualcosa: Frank Kermode definisce il libro “spassosamente serio” (e io non smetterò mai di dire che questa caratteristica è comune a tutti i più grandi romanzi), mentre James Wood parla di romanzo “stupefacente, sferzante, uno dei capolavori narrativi più insoliti che mi sia capitato di leggere… Una vera delizia”.
Dal canto mio, mi limito ad aggiungere un piccolo collage disordinato di spezzoni, un concentrato di alcune fra le parti degne di nota che mi ero segnato con la matita durante la lettura: “…si ritrovò a immaginare che sua moglie in jeans fosse uno di quei graziosi ragazzini omosessuali del college amici del parrucchiere.” “Sabbath detestava condividere come le persone per bene detestano il vaffanculo. Non possedeva una pistola, pur abitando in quel luogo isolato, perché non voleva avere una pistola a portata di mano in una casa dove si aggirava una donna che parlava continuamente di «condividere»”. “… le notizie non gli dicevano nulla. Erano qualcosa di cui la gente parlava, e Sabbath, indifferente alla routine priva di trasgressioni delle esistenze normalizzate, non desiderava parlare con la gente.” “Con quanta tenacia si attacca alla vita! Alla giovinezza! Al piacere! Alle erezioni! Alle mutandine di Deborah! Eppure nel frattempo guardava giù dal diciottesimo piano, la distesa verde del parco, e pensava che era arrivato il momento di fare quel salto. Mishima. Rothko. Hemingway. Berryman. Koestler. Pavese. Kosinski. Arshile Gorky. Primo Levi. Hart Crane. Walter Benjamin. Una squadra senza pari. Niente di male ad arruolarsi fra loro.” “… erano stati in Giappone per Natale, e quando erano andati a far compere in un grande magazzino in una grande città, la prima cosa che avevano visto entrando era stato un gigantesco Babbo Natale in croce. – I giapponesi proprio non ci arrivano, - aveva detto Gus. E perché dovrebbero?” “Non credo di essere mai entrato nel tuo ano senza una prescrizione medica e il tuo permesso scritto.” “… rabbrividiva a pensare che tutto ciò che nella città risultava atroce in realtà mostrava l’umanità di massa come veramente desidera essere.” “… ossessionato dall’io pur essendone a malapena provvisto…” “Chiunque abbia un po’ di cervello è consapevole di vivere una vita stupida anche mentre la sta vivendo. Chiunque abbia un po’ di cervello sa di essere destinato a condurre una vita stupida perché non ne esistono di altro genere.” “ – Kathy, - le disse, e la stanchezza gli dava la sensazione di essere intermittente e deluminescente come una lampadina che si estingue. – Kathy, - le disse, e guardando la luna salire pensava che se solo avesse avuto la luna dalla sua parte le cose sarebbero andate molto diversamente, - fai un favore a tutti, e succhialo a Brian, invece.” “… non c’è bisogno di lavorare in un ospedale psichiatrico per sapere come vada tra mogli e mariti.” "E se fossero ancora tutti vivi, a casa di Nikki? Morty. La mamma. Papà. Drenka. Abolire la morte: un pensiero emozionante, anche se certamente non era lui il primo, in metropolitana o altrove, a formularlo, a pensarci disperatamente, a rinunciare alla ragione e pensarci come quando aveva quindici anni e voleva assolutamente che Morty tornasse. Mandare indietro la vita come si fa con l'orologio in autunno. Staccarlo dal muro e mandarlo indietro e poi ancora indietro fino a che tutti i tuoi morti non ricompaiono, come l'ora legale." "Il giudice può infliggermi fino a un anno per ogni condanna. Ma non è cattivo. Ormai sono quasi le quattro del pomeriggio. Deve presiedere ancora dodici udienze, o venti, e desidera soltanto, disperatamente, andare a casa a farsi un bicchiere. Ha l'espressione di uno che è a cinquecento chilometri dal bicchiere più vicino."
Disperatamente bello anche il titolo della prima parte: “Non c’è niente che mantenga ciò che promette”. Ma certi grandi romanzi mantengono, eccome! E allora io dico: basta con l'essere complici delle classifiche cinosuinòfile, o potrei non rivolgervi più la parola.Non fatemi incazzare.
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