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Pio XII e la Shoah. La “lezione” di Adriano Prosperi

Creato il 27 ottobre 2013 da Uccronline

Shoah 
di Matteo Luigi Napolitano*
*Docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università G. Marconi

 

Gli storici, si sa, non sono esenti da errori, perché la storia è una scienza umana ed errare è umano. Ma non si tratta solo di questo. La storiografia è afflitta talvolta dall’obbligo delle distinzioni, divisioni e appartenenze culturali, dagli steccati ideologici: insomma da tutto ciò che inficia la serena analisi dei fatti. Quando poi questi fatti riguardano la storia della Chiesa nella seconda guerra mondiale, si materializza la possibilità che le convinzioni religiose o politiche sovrastino i fatti documentati, alterando le interpretazioni dello storico.

Ne è un tipico esempio l’articolo di Adriano Prosperi sul negazionismo, apparso su La Repubblica il 24 ottobre scorso.

In questo articolo Prosperi analizza il caso Priebke, sottolineando efficacemente che, dopo il processo in Italia, la condanna all’ergastolo e i benefici della legge italiana, il boia delle Fosse Ardeatine «ha potuto muoversi tranquillamente per Roma in mezzo agli eredi delle sue vittime», facendo di questa libertà un «uso per rivendicare un miserabile orgoglio di soldato e per negare l’ingranaggio di morte di cui era stato un piccolo anello». Come non condividere queste parole? Sennonché, qualche riga dopo, Prosperi parla di coloro che avrebbero voluto fare di Priebke «un’icona politica dopo il vicino decesso» e che «a favore del disegno c’era la prevedibile benedizione della Chiesa e il consueto facile perdono italico». La Chiesa dunque avrebbe senza dubbio “benedetto” il perdono italico di Priebke, passando quindi la spugna sui suoi efferati crimini.

Poco dopo, l’autorevole storico precisa il suo pensiero in questi termini: «Ma stavolta dall’alto di quel Vaticano che non aveva visto il rastrellamento degli ebrei del 1943 qualcuno ha visto il disegno e ha inceppato il meccanismo». In altri termini, le gerarchie vaticane si sarebbero salvate in calcio d’angolo, riscattandosi dal “silenzio” sulla Shoah. Tralasciando le osservazioni sul perdono nella teologia cattolica (che non è certamente il facile passaggio di spugna che Prosperi crede), desideriamo invece concentrarci sulla sua idea del Vaticano che, secondo lui, non vide che cosa succedeva agli ebrei romani e, supponiamo, agli ebrei europei.

L’approccio degli storici a un tema delicato come il Vaticano e la Shoah richiede più che mai attenzione ed equilibrio. Non ci sono solo gli apologeti, disposti ad assolvere e a “beatificare” sempre e comunque il personaggio di turno, sulla base di un’appartenenza religiosa o culturale e prescindendo dai documenti. Esistono anche gli “ipologeti”: coloro che dicono meno di quanto dovrebbero perché omettono o ignorano i documenti esistenti, quando non li tagliano di proposito nei punti in cui tali documenti smentiscono le loro tesi o i loro assiomi di partenza. E può anche capitare di imbattersi in quelli che abbiamo definito gli storici “gasteropodi”, i quali senza documenti, in modo strisciante ma politically correct inoculano nel dibattito teorie indimostrabili, ma presentate in modo apparentemente ineccepibile, quindi tale da farle apparire vere e inconfutabili. Gli storici, quelli seri, devono quindi dibattersi fra tali approcci distorti; ma anche guardarsi dall’esserne vittime, dato che nessuno è esente da errore.

Per Prosperi il Vaticano non vide la razzia degli ebrei romani. Sarebbe stato opportuno aggiungere che la maggioranza di quegli ebrei romani (l’anagrafe è matematica)  trovò rifugio in conventi e in altri rifugi, anche sulla spinta delle direttive papali. Non ripeteremo qui quanto altrove è già emerso grazie alla documentazione; preciseremo soltanto che anche se quegli ebrei romani mai tornati da Auschwitz rappresentano certamente un capitolo doloroso della storia nazionale, tutto ciò nulla toglie ai meriti della Chiesa cattolica per quello che essa fece in favore degli altri ebrei sfuggiti alla retata nazista di Roma.

Quel 16 ottobre 1943, di buon’ora, l’ambasciatore tedesco viene convocato dal Segretario di Stato Maglione: la razzia, gli dice il cardinale, deve avere immediatamente fine. Che trovi l’ambasciatore il modo di farlo, ma la Santa Sede non dev’essere messa nelle condizioni di protestare e si affiderebbe alla Provvidenza se fosse costretta a farlo. Sulla base di questo intervento vaticano, la razzia degli ebrei romani fu fermata; questo ci dicono i documenti britannici, che confermano quindi le informazioni ricavabili dai documenti vaticani.

I documenti ci consegnano quindi un Vaticano che non è cieco di fronte alla tragedia ebraica. E le testimonianze in tal senso non ci provengono solo da fonte vaticana, ma dalle stesse fonti ebraiche, che si rivelano davvero molto interessanti e ci fanno comprendere che gli ebrei contemporanei di Pio XII vedevano questo Papa in una luce molto positiva; diversamente da molti ebrei delle generazioni successive.

Il problema che lo storico deve quindi affrontare è quello dello iato culturale esistente fra due generazioni di ebrei: perché quella coeva a Pio XII lo difende? Su quali basi la generazione successiva lo attacca e lo accusa di “silenzio” di fronte alla Shoah? Perché Raffaele Cantoni, l’intelligente “mangiapreti” di sinistra dirigente della Delasem (l’organizzazione che durante la Shoah aiutò gli ebrei a emigrare), difende Pio XII nel 1964? Perché, sempre dopo la guerra, lo difende il Rabbino capo di Roma, Elio Toaff? Perché negli archivi ebraici dell’Ohio ci imbattiamo in dichiarazioni secondo cui gli ebrei, durante la Shoah, trovarono l’aiuto delle gerarchie cattoliche e di tanti  uomini di buona volontà ligi a Pio XII? Perché molte organizzazioni ebraiche di soccorso, durante la Shoah, affidarono i loro soldi a Pio XII, all’unico scopo di aiutare gli ebrei? Tutti questi elementi si ricavano dai moltissimi documenti ormai accessibili agli studiosi. Perché se ne tace?

La verità ormai consegnata alla storiografia è che nessuno che affronti seriamente tali questioni arriva a pensare che Pio XII chiuse gli occhi di fronte alla tragedia ebraica. Non lo pensano neppure a Yad Vashem, dove lo scorso anno ha visto la luce il primo volume su Pio XII e l’Olocausto, frutto di un lavoro congiunto ebraico-cattolico iniziato nel 2009 e durato tre anni.

Sarebbe bastato uno sguardo a Google per aggiornarsi su tutti questi sviluppo. Ma l’ipologia, si  sa, è la più facile accetta con cui si tagliano i giudizi sommari.


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