Anna Lombroso per il Simplicissimus
Sono 641mila, secondo gli ultimi dati dell’Istat, gli italiani tra i 15 e i 24 anni disoccupati, pari al 37,1 per cento delle forze lavoro attive e al 10,6 per cento della popolazione in quella fascia di età. Un record assoluto, registrato dall’Istituto nazionale di statistica lo scorso novembre, che batte i massimi di tutte le serie mensili e trimestrali annotate a partire dal 1992. E che rappresenta il picco di una parabola dalla crescita costante, che si è acuita da quando, nel settembre 2011, il tasso ha superato la soglia del 30 per cento. E secondo il report della Commissione europea sull’Occupazione e gli sviluppi economici del 2012, peggio di noi, in Europa, sono messi in pochi: la Grecia, con il 57,6 per cento di giovani disoccupati, la Spagna con il 56,5 per cento e il Portogallo con il 37,8 per cento. Ma la disoccupazione resta una piaga che affligge tutte le età, con un tasso complessivo in Italia dell’11,1 per cento, in crescita rispetto a un anno fa di 1,8 punti, e che rischia – è la definizione dell’Europa – di trascinarci nella trappola della povertà: “la disoccupazione sta toccando nuovi picchi, come non si vedeva da vent’anni” e in Italia la congiuntura economica ha, secondo il rapporto, “drammaticamente aumentato i rischi di esclusione sociale di lungo periodo”, che “variano enormemente” tra gli stati membri. L’Italia fa parte del gruppo in cui “c’è un alto rischio di entrare nella povertà e basse possibilità di uscirne”.
La Fornero intervistata ci dà una notizia buona e una cattiva: non sale in politica ma in compenso torna a fare la cattiva maestra come ha fatto la pessima ministra. E che sia dedita a predicare male e razzolare peggio lo conferma la sua ultima sortita in tema di lavoro: il precariato non è la perfezione ma è meglio del non lavoro, che la condanna perenne alla disoccupazione e alla marginalità a vita ora si chiama pudicamente così.
La professoressa mente. Perché a lei e apre a tutto un ceto politico che si contende Ichino e quella dinastia di profeti della flessibilità che altro non vuol dire se non la cancellazione di garanzie, sicurezze, diritti, si addice che il mercato del lavoro si traduca nell’aggregazione di moltitudini di corpi mobili, ridotti a merci, da spostare secondo un modello e procedure di relazioni industriali estemporanee, occasionali, dettate da capricci e bisogni disorganici di una padronato sempre meno interessato alle produzioni e sempre più rivolto a quel gioco d’azzardo che fa accumulare beni intangibili all’azionariato.
È tedioso ripeterlo, ma ci sono segnali espliciti che perfino l’Europa non ci chieda più quello che le varie agende ritengono doveroso, inevitabile, ineluttabile imporci. Che perfino la troika, le cancellerie, gli irriducibili, le curve sud del rigore e gli ultrà dell’austerità, tutti a vario titolo in campagna elettorale, comincino a temere che i purganti e le mutilazioni rischino di ammazzare il malato.
Da noi invece il tema del lavoro e del riavvio dell’economia si agita stancamente sullo sfondo di liste, nomenclature, curricula, immaginette votive, annunci, rinviabile a dopo, quando, sembrano voler dire, si farà sul serio. Ma è invece tremendamente serio che ci sia un’ecumenica unità di convinzioni ed intenti, se qualcosa resta un tabù intangibile, la cancellazione dell’articolo 18, se il reddito di cittadinanza viene guardato con la sufficienza che si riserva alle acrobazie visionarie degli inquilini di Utopia, se in un inquietante silenzio mediatico, si lasciano “decantare” le vicende simbolo dell’annientamento di una politica industriale nazionale, l’Ilva e la Fiat, in modo che nell’eclissi di attenzione l’abbia vinta il ricatto, il diktat cui si deve soggiacere, l’ultimatum tra lavoro o morte. Che tanto l’unico diritto che compete ai lavoratori lasciati sempre più soli è quello di mantenersi a ogni costo il posto.
L’Italia intera in una magnifica liturgia interreligiosa, in una deliziata cerimonia votiva dedicata all’ipocrisia si è emozionata davanti al video: soprattutto quelli che l’hanno calpestata, ridotta a carta straccia, tirata da una parte e dall’altra, la Costituzione non si tocca su province o unioni gay, ma si tacita e riduce a spettro nebbioso quando si tratta di ridurre sovranità e scelte economiche, si sono incantati a sentire l’imbonitore ufficiale, delegato ormai da anni a a dare una spolveratina lirica a parrucche e coscienze incipriate. È che a tutti piace sapere che come una coltre stellare ci copre una trama di principi morali alti, remota e aerea. Che tanto l’importante è guardare ad essi come a un prodotto letterario e perseguire invece quel tollerante stravolgimento di regole, valori, leggi, che viene pragmaticamente chiamata modernità, realismo, necessità.
Si mettere al primo posto il tema della legalità sembrerà parziale e comunque non sono proprio radiosa all’idea di metterci a guardia un vigilante. Ma sarebbe ora di cominciare a non ritenere la legalità un contesto che si affronta solo in via giudiziaria, che non significa solo il rispetto di leggi, che non si limita all’incandidabilità di discutibili soggetti dalle cattive frequentazioni e ancot peggiori abitudini. E che illegalità no sconfina solo nella corruzione, nell’evasione, dell’intreccio con poteri criminali, le cui inclinazioni e consuetudini assomigliano in un mutuo scambio a quelle di certa finanza.
Sono crimini i costi sociali delle politiche di rigore, sono delitti i tagli ai sistemi pubblici di protezione sociale, è trasgressione il permanere ostinato nei conflitti di interesse, è un reato l’aver mantenuto per ragioni di interesse privato una legge elettorale che lede quello generale, è una colpa affrontare il malessere sociale come un problema di ordina pubblico, incrementando nelle città la disuguaglianza sociale. È contro la legge e non solo quella morale, depredare i cittadini dei beni comuni a fini speculativi, sottrarre risorse a tutela del paesaggio e della bellezza per alimentare opere inutili e dannose. Ma il crimine più infame è l’averci derubati del desiderio del futuro e dell’aspirazione alla felicità, offrendoci in cambio la lotta per una misera sopravvivenza, la paura per una incertezza, che sfrontatamente definiscono desiderabile rispetto al “peggio”, la persuasione che si debba essere assoggettati alla rinuncia e al sacrificio di diritti e dignità, perché è preferibile un presente lugubremente conosciuto a un domani ignoto. Ma guardate che quel domani se ci proponiamo di farcelo da noi, potrebbe anche essere luminoso e bello e comunque “nostro”.