ginestra
Giuseppe Casarrubea
Più studio la strage di Portella della Ginestra, più ne ravviso i caratteri comuni con tutte le altre stragi politiche che si sono avute nella storia d’Italia durante la guerra fredda. E a buona ragione questa strage è stata definita madre di tutte le stragi. Perchè ha un archetipo interno, un timbro, una sua diabolica struttura che si riscontra poi in tante altre stragi analoghe. Quando si spara sul mucchio e su un simbolo, si solleva il terrore, si spinge la gente o a ribellarsi in modo inconsulto, o a starsene rintanata in casa, in attesa di tempi migliori.
Purtroppo, però, occorre dire, non sempre quanto accadde quel giorno è assunto come l’inizio della nostra storia repubblicana, abituati come siamo stati a vivere di miti e di pagine gloriose. Nel caso di Portella non è così. Fu quello l’inizio della sconfitta e della complicità dello Stato che continua a durare con il suo costante e tetro ignoramento dei morti, dei feriti di allora e dei familiari delle vittime. Ancora a oggi senza giustizia e senza riconoscimento alcuno.
Come disse Girolamo Li Causi nella seduta della Costituente del 2 maggio 1947 l’idea di prendere d’assalto una folla inerme di donne, bambini e lavoratori in festa, è parte di un preciso piano strategico: provocare le masse dei lavoratori, aizzare alla guerra civile, instaurare un regime dittatoriale per bloccare la democrazia. Quella allora nascente, con i padri costituenti ancora intenti a darci quella Carta costituzionale che oggi alcuni vorrebbero stravolgere, in nome di una falsa modernità politica, di un malinteso adeguamento alla realtà di oggi.
I criminali avevano previsto giusto perchè furono soprattutto i lavoratori inermi, le donne, i bambini e i ragazzi a pagarne il conto.
proiettile conficcato nell'occhio di una ragazza ferita (Archivio Casarrubea)
Il numero più alto di vittime si ebbe tra coloro che si erano collocati più vicini al podio, verso il quale vi era stata una vera e propria convergenza di tiro. Lo si desumeva dall’altissimo numero di morti e feriti che caddero attorno a quel punto. Lo stesso Giuliano, che molti documenti ci dànno a contatto con l’eversione nera monarchico-fascista di Roma, pochi minuti prima dell’attacco, era stato visto guardare ripetutamente, col binocolo, in quella direzione. Voleva rendersi conto dell’arrivo degli oratori ufficiali.
Qualcuno aveva messo nella sua testa che quella mattina si sarebbe messa in atto l’esecuzione capitale dei dirigenti comunisti e socialisti. Era con lui Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, della squadra dei Vendicatori di Tommaso David, capo dei servizi segreti della Rsi.
Il maresciallo Parrino era a pochi metri dal punto in cui s’era messo a parlare il calzolaio Giacomo Schirò, di San Giuseppe Jato, nell’attesa che arrivassero tutti gli altri. Vide cadere accanto a sè Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, e Giovanni Megna. All’incredulità e al terrore collettivo seguì un fuggi fuggi generale, tra urla di disperazione, di madri che chiamavano i figli, di persone che cercavano un riparo nelle scarpate o nei cunettoni dello stradale, o dietro qualche roccia.
scheggia metallica (di granata?) - Archivio Casarrubea
Giovanni Grifò, 12 anni, di San Giuseppe Jato, era andato a comprare nespole nei mercatini improvvisati dalle Camere del Lavoro; fece in tempo a raggiungere la madre per dirle che era stato colpito al fianco destro da un proiettile. Venne adagiato, con gli altri feriti, su un carro e quindi trasportato nel suo paese, e poi a Palermo, dove morì in ospedale il 15 maggio (1). Sorte analoga toccò ad altri suoi compaesani: Vincenza La Fata, una bambina di 9 anni, che morì sul colpo, Giuseppe Di Maggio, 13 anni, Filippo Di Salvo, 48 anni (morirà, dopo atroci sofferenze, il successivo 11 giugno). Si contavano, poi, gli altri morti, di Piana degli Albanesi: Francesco Vicari, Castrenze Intravaia, un ragazzo di 18 anni, Serafino Lascari, Vito Allotta di 19 anni. Undici morti. La furia criminale sembrava essersi abbattuta di più sui pianesi che avevano tardato ad arrivare, come se un cupo presentimento li avesse prima avvertiti. Sul terreno restavano ancora ferite 27 persone: Giorgio Caldarella che perdeva la funzionalità dell’arto inferiore destro, Giorgio Mileto, Antonio Palumbo, Salvatore Invernale, Francesco La Puma, Damiano Petta, Salvatore Caruso (che resterà invalido a vita), Giuseppe Muscarella, Eleonora Moschetto, Salvatore Marino, Alfonso Di Corrado, Giuseppe Fratello, Pietro Schirò, Provvidenza Greco (che perderà l’uso della vista e della parola), Cristina La Rocca, Marco Italiano, Maria Vicari, Salvatore Renna (ferite anche per lui invalidanti), Maria Calderara, Ettore Fortuna (che sarà costretto a rimanere per sei mesi a letto, con postumi invalidanti), Vincenza Spina, Giuseppe Parrino, Gaspare Pardo, Antonina Caiola, Castrenze Ricotta, Francesca Di Lorenzo, Gaetano Modica. Tutti, con una pietosa opera di volontariato, nei modi più improvvisati che si presentarono, furono condotti ai loro paesi di origine per ricevere i primi soccorsi, e da qui, poi, con mezzi di fortuna o autocorriere a disposizione sul posto, furono trasportati all’ospedale della Filiciuzza di Palermo, dove giunsero nel primo pomeriggio. Alcuni di questi feriti, come Vincenza Spina, Giuseppa Parrino e Provvidenza Greco moriranno in seguito a causa delle lesioni riportate. Ma nessuno ha mai fatto un calcolo dei morti in conseguenza dei danni irreparabili subiti durante la strage e dei feriti che si aggravarono anche a causa dell’assoluta mancanza di una qualsiasi forma di soccorso da parte delle ambulanze dei vari ospedali, che rimasero totalmente inerti.
I feriti giunsero alle loro case su carretti di fortuna. Il boss locale Salvatore Celeste di San Cipirello aveva parlato per tutti: “Chi vota per il Blocco del popolo alle elezioni del 20 aprile – aveva detto – non avrebbe più visto nè il padre nè la madre.
Verbale di intervento sul ferito Alfonso Di Corrado.
frammenti metallici (di granate) tolti dai piedi di Alfonso Di Corrado – Archivio Casarrubea