Storia di un amore malato e possessivo, camuffato da un intelligente furto di un’opera d’arte.
Danny Boyle conferma nuovamente il suo grande talento di regista eclettico e sperimentatore. Dopo il claustrofobico 127 ore, con In Trace nei cinema dal 28 agosto, Danny Boyle confeziona una pellicola intensa, decisa, al passo con i tempi e mixando un po’ di melò, crime-movie e deliri onirici. Anche se In trace ha qualche pecca narrativa, risulta essere comunque una pellicola che rientra alla perfezione della poetica del regista, abile mattatore nel raccontare storie in bilico tra realtà e fantasia. Supportato da un cast di validi attori, il film anche se mantiene il suo status di pellicola poco commerciale, colpisce comunque fatalmente il cuore dello spettatore.
Ci troviamo nelle città di Londra dove il giovane Simon, interpretato da un convincente e bellissimo James McAvoy, lavora come assistente in una prestigiosa casa d’aste. Si troverà, suo malgrado, coinvolto nel furto di un famoso quadro di Goya e ferito mortalmente alla testa non ricorderà dove ha nascosto la refurtiva. Tampinato dal diabolico Frank, che ha il volto di un convincente Vincent Cassell, il giovane viene condotto da una nota terapista dell’ipnosi, Elisabeth, interpretata da una seducente Rosario Dawson, nella speranza di poter aiutare il ragazzo a recuperare i ricordi perduti. Un’impresa non facile visto che il viaggio nei ricordi di Simon, porterà alla luce segreti sepolti nel tempo,ed animando una fitta rete di inganni e rovesci di fortuna. In Trace è un film da vedere tutto d’un fiato ed anche se durante il primo tempo ha qualche piccola caduta di stile, si riscatta grazie ad un finale intenso e che ricorda, seppur alla lontana, l’Inception di Nolan.
Il decimo lungometraggio del regista britannico è dunque una di quelle pellicole che non può essere raccontata perché appartenente a un certo filone di opere-rompicapo in cui gli elementi ed i colpi di scena, rappresentano parte indispensabile del gioco e del relativo divertimento. Stilisticamente il film di Boyle prosegue su quella stessa ricerca sonora e visiva che aveva toccato il suo apice nella rappresentazione del dramma di 127 ore, dove le sperimentazioni linguistiche utilizzate (flashback, split screen e found-footage) supplivano perfettamente ai limiti spazio-temporali della vicenda, affidata ad un solo io-narrante, e riuscivano a bilanciare perfettamente la disperazione dell’intrappolamento con esaltanti slanci cinematografici nati dalla fantasia del protagonista. Qui invece, nonostante la presenza di più personaggi, si respira un’atmosfera decisamente più chiusa e soffocante, come a voler comunicare la gabbia in cui l’amnesia ha rinchiuso il fragile protagonista. Ad accentuare questo senso di inquietudine, ci pensa la città di Londra; rappresentata al di fuori del glamour e dei grandi palazzi architettonici, a Boyle stavolta non interessano gli esterni, ma si affida ad asettici studi e appartamenti in penombra o illuminati da luci innaturali. A completare il “quadro” (in ogni senso) e complicare lo spaesamento generale, provvede poi una colonna sonora come sempre selezionata ad arte e con un senso perfetto dei tempi e dei suoni della modernità.
Insomma c’è tanta carne al fuoco in questo ultimo lavoro di Danny Boyle e forse il tema stesso del trance non è sfruttato al meglio della sua complessità psicologica o della sua pericolosità clinica. Però c’è anche tanto di quell’amore dell’autore per il cinema, quel cinema inteso come esperienza totalizzante dal punto di vista visivo e sonoro, che alla fine gli si perdona volentieri anche il peccato di una certa mancanza di sostanza.
di Carlo Lanna per Oggialcinema.net