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Professione fede

Creato il 13 agosto 2012 da Straker
Professione fedeNel paese dei sogni
E’ nella cultura popolare che sopravvive oggi una fede ingenua nell’alterità e nel significato. Si pensi a quelle persone, di solito donne anziane, che ricordano perfettamente i sogni: di fronte ad un uditorio formato per lo più da increduli, non solo li raccontano, ma li interpretano, con un’istintiva conoscenza degli archetipi degna di un antropologo. Non di rado i sogni sono profetici e riguardano i defunti da cui si ricevono comunicazioni destinate ai “vivi”. I cosiddetti scettici obiettano che sono coincidenze: alcuni eventi sognati si sono adempiuti, ma molti altri no. Altri astanti, però, sono incuriositi ed inclini a ritenere che queste donne abbiano qualche dote: le ascoltano attenti, come si ascolta un oracolo.
E’ una realtà paesana di credenze e di corrispondenze, in cui la morte è addomesticata, esorcizzata ed il caso costretto a seguire un percorso, dove la magia coesiste con un cattolicesimo popolato di santi, madonne ed angeli custodi. In questo mondo agricolo-pastorale, ormai quasi del tutto scomparso, non si avverte alcuna incongruenza tra riti paganeggianti ed i dogmi della religione, poiché le contraddizioni non vi trovano cittadinanza. Così gli eventi obbediscono ad una ratio. Non ci si accorge che gli avvenimenti non paiono ottemperare ad una logica, almeno non alla logica rassicurante cui vorremmo si attenessero. Ivi il male stesso è inscritto in un disegno che, se non lo giustifica, lo spiega ora come colpa ancestrale ora come malocchio o influsso demoniaco.
Di questa fede vernacolare nel senso è rimasta traccia anche nella nostra società secolarizzata, sotto forma di superstizione o di bisogno disperato di una risposta. Così, quando muore un adolescente, i suoi coetanei, la cui esistenza conosce per lo più l’effimero divertimento, scoprono improvvisamente la sfera spirituale: il ragazzo o la ragazza, la cui vita si è spezzata, è salito in cielo, come angelo, vegliando da lassù sui suoi amici e compagni di scuola. Il luogo del decesso diventa un piccolo sacrario con fotografie, souvenirs, fiori che presto appassiranno… E’ ovvio che è una religiosità estemporanea e consumistica, destinata a perdersi quasi sempre nel turbinio delle “cotte” e delle trasgressive serate in discoteca.
Qualcuno, fortunatamente, è sfiorato da domande abissali: perché si vive? Perché si soffre? Perché si muore? E’ qui che le risposte rischiano di essere più dannose degli strazianti interrogativi. Arriva subito il sacerdote che ciancia di peccato, di redenzione, di libero arbitrio, di mistero della fede o, al contrario, il razionalista che liquida ogni problema, chiamando in causa la natura che è così perché è così.
Si resta annichiliti: crolla il mondo e, come insegna Nietzsche, Dio muore. Ricordo che, qualche anno addietro, alcuni studenti all’esame di stato, illustrando il pensiero del filosofo tedesco, citavano “la morte di Dio”. Si affrettavano, però, come per timore di essere considerati sacrileghi, a precisare che la morte di Dio è l’eclissi dei valori tradizionali, quasi non fosse soprattutto la constatazione che l’universo è irrazionale. L’ateismo è ancora un tabù fra la last-lost generation.
In genere si vive (si vive?), ignorando le questioni capitali, salvo occuparsene, quando un macigno ci cade sulla zucca o ci sbarra la strada. Qualcuno allora si rifugia nella consolazione del dogmatismo: si prende un testo sacro (la Torah, la Bibbia, il Corano… ) e se ne cavano tutte le risoluzioni, persino le previsioni del tempo, come ironizzava tempo fa Samuele Bersani in una canzone.
Superstiti superstizioni
Nel mondo occidentale la fede “cristiana” offre tutti gli appigli: Dio crea il cosmo, le piante, gli animali, infine Adamo ed Eva, che sono il vertice della creazione, perché “fatti ad immagine e somiglianza” dell’Altissimo. E’ tutto idilliaco, quando arriva il serpente a rovinare tutto etc. etc. Per fortuna poi Dio s’incarna in Cristo, redime l’umanità, sconfigge il peccato, anche se per il vero happy end bisogna attendere il Giudizio universale, quando finalmente, dopo tutta questa faticaccia, si andrà a dormire: “All'urtimo uscirà 'na sonajera d'angioli e, come si ss'annassi a letto, smorzeranno li lumi e bona sera”.(Giuseppe Gioacchino Belli, Er giorno der giudizzio)
Ecco, Belli, pescando con arguzia nell'immaginario popolare, evidenzia un tratto tipico delle religioni escatologiche (in ciò simili a molte ideologie, come il marxismo), vale a dire il prospettivismo, la promessa di un tempo in cui trionferanno la verità, la giustizia e la gioia. Gli uomini sono malati: la loro malattia si chiama “sindrome del futuro”. Essi immaginano e pregustano un avvenire radioso che pare non arrivare mai, contemplano incantati un orizzonte seducente, ma inattingibile.
Ammettiamo pure che davvero ci aspetti un avvenire così luminoso: è qui in questo presente eterno ed eternato nell’assurdo che è necessario essere felici. I profeti (anche il Messia) rispondono: “presto” che, nel loro linguaggio nebuloso, significa “mai”. “Se non ora, quando?”
Ecco la fede, più che azzardo, scommessa (Pascal), è follia. E’ folle quel “credo quia absurdum” del fanatico e misogino Tertulliano, poiché, se è opportuno aprirsi con la mente ed il cuore all’inimmaginabile, al fantastico, è un delitto ripudiare l’intelletto, la capacità di discernimento. Sia chiaro: non si intende ridurre l’intera realtà ad un meccanismo che si muove solo per muovere sé stesso. Oltre i fenomeni, si slargano territori che neppure possiamo concepire, ma nego che le facili teodicee, le spiegazioni confortanti siano d’aiuto e che siano plausibili. Sono simili, infatti, a quei vissuti onirici che interpretati in modo semplice, di una semplicità infantile, perdono la loro aura, il loro afflato. Meglio il silenzio di tante parole vuote. Meglio restare nel guado che approdare al lido delle conclusioni rassicuranti ma false. Siamo simboli, ossia esseri dimezzati ed anche delle verità possediamo solo una parte: dobbiamo trovare l’altra che si incastri. La troveremo mai? Forse è più importante cercarla.
Non credo quia absurdum
Sempre a proposito di assurdo, che cosa è più illogico del Male? Per tentare di spiegarlo, si ricorre spesso alle teorie più assurde. Si dimentica inoltre che il mysterium iniquitatis, oltre ad essere sciaguratamente irragionevole e straripante, è anche stupido. Il Male è idiozia allo stato puro, spesso perpetrato da idioti: uno tortura un prigioniero, un altro viviseziona una cavia, uno incendia un bosco, un altro massacra un bambino, uno orina su un carcerato, un altro condanna un innocente… Attenzione! Questa non è letteratura macabra: questo e molto altro sta accadendo adesso, mentre leggete codeste righe. Da un punto di vista meramente quantitativo, nella storia, il bene è in netto svantaggio.
Di solito si giustifica Dio, asserendo che comunque le sofferenze umane (di quelle che patiscono animali e piante il Dio biblico non si interessa) sono limitate nella durata nonché eque punizioni dei suoi peccati (le torture infernali, invece, sono interminabili, ma questo è un altro discorso): il Creatore forse, abitando fuori dallo spazio-tempo, non ha una percezione netta di quanto siano incommensurabili gli istanti irrigiditi nel dolore. Quale sia la vera origine del peccato originale non si sa.
Molti lo definiscono Padre: egli tempra la sua discendenza mediante le avversità, ma forse est modus in rebus. Un esempio: un genitore è con il figlio il piccolo in un parco, dove stanno passeggiando. All’improvviso un cane, divincolandosi dal guinzaglio del padrone, si avventa contro il bimbo e lo azzanna alla nuca. Come si comporta il padre? Resta indifferente, perché pensa A: se mio figlio soffre, è uno strazio temporaneo; B: se il pargolo muore dissanguato o per qualche infezione, è lo stesso, giacché vita e morte sono illusioni. Tutto è maya: la materia non esiste e ciò che non esiste non può patire. Con questa parabola che alcuni reputeranno blasfema, vorrei alludere a come mi pare, pur dalla mia angolazione limitatissima, si comporti a volte Dio.
Ricordo una scena di una pellicola ispirata ad una vicenda realmente accaduta. Alcuni naufraghi, uomini e donne, annaspano in mare aperto ormai da molte ore e non hanno né la possibilità di risalire sul natante né molte speranze che qualcuno li avvisti per soccorrerli. Una donna comincia a pregare Dio affinché li aiuti; un’altra la ammonisce, tuonando che solo ora ella implora il Signore, adesso che è in una situazione senza via d’uscita. La fulmina infine rammentandole che ogni giorno in tutto il pianeta milioni di persone si trovano in condizioni disperate, senza che Dio si degni di intervenire. E’ vero che esistono dei casi in cui sembra che un’azione soprannaturale sia stata decisiva per salvare delle vite, ma non sono la norma. E’ evidente che la vera fede, sempre che abbia un senso riferirsi alla fede, va fondata su basi più solide e non su accorate (ed inascoltate) invocazioni.
Pregare è dunque umano, peculiare degli uomini che sono attanagliati dallo sconforto. Se Dio è imperfetto, le sue creature lo sono ancora di più. Forse è questa la “somiglianza” biblica.

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Professione fede

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