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Prologo – 18.09.1860

Creato il 23 giugno 2012 da Fant @fantasyitaliano

PROLOGO – 18.09.1860

 

La mondina lo tirò per il talare; «muoviti mocciosa!», Sarastro ringhiò, le premette la mano ossuta sulla bocca. Quella scalciò, gli avvinghiò la sozza tunica fradicia, lui scivolò fra le piantine di riso:
«Fermati, troia!»; la bambina gli saltò sopra. Bocconi nell’acqua bassa, abbaiando oscenità, lui le affondò le unghie nere nelle caviglie, la tirò nella fanghiglia con sé. Le sedette sul dorso, le strappò la camicia.
«Strilla, stronza: chi credi che ti senta? Non saremmo neppure nel tuo schifo di spazio-tempo, non avessi così bisogno di cibo.»
Alle grida della mondina nel mezzogiorno, nell’erba alta da lì per chilometri fino al cucuzzolo del monte Pellegrino, e le tegole remote e brune di Crocette e Castelfidardo, che affioravano sopra le gobbe delle colline, rispondevano solo i grilli e le tortore, le idiote cicale, i merli, il Musone.
Sarastro cavò dal tascapane la penna d’upupa con il pennino di rame, una boccetta d’inchiostro verde; tagliò con l’athame un quadrato di pergamena, sul recto tracciò i segni di Paimon e di Seere, leccò l’altro lato, lo incendiò di fuoco nero, lo applicò fra quelle gracili scapole.
La bambina si accasciò fra i germogli, l’acqua le sciolse il fazzoletto dai capelli.
Lui si sollevò, si scrollò la veste nera dal fango, le schioccò di seguirlo: lei, a un tratto rianimata, gli obbedì irrigidita, senza flettere le ginocchia; con il volto contratto in una maschera terrea arrossata dal pianto che sgorgava dagli occhi vivi. Affondava i piedi nudi nelle impronte di lui.
«Copriti, schifosa», Sarastro sibilò, «siamo un prete e una bimba.»
La mondina raccattò fra le piante il cencio di fazzoletto e la camicia strappata, si annodò le cose addosso come meglio poté. Lui la trascinò per la sterrata fra i casali stringendole la nuca affettuoso e severo, simulava quell’assorto passeggio degli autentici sacerdoti cattolici, scimmiottava consigli. La preda lo seguiva costretta dall’incantesimo.
I coloni si affacciavano con il cappello sul petto dalle porte e le finestre delle antiche fattorie, dalle imposte delle stalle spalancate sull’autunno. Si segnavano al suo passaggio, gridavano «riverisco»; riabbassavano lo sguardo sotto le tese di vimini. Le madri raccoglievano alle gonne i bambini più piccoli che piangevano all’improvviso, strillavano «Mamma, lo spretato! Ho paura!»
«Ne avresti molta di più, se sapessi», Sarastro se la rideva. E invece andava bene così: la commedia che di borgo in borgo durava da quattro secoli, l’essere un reietto sospeso a divinis. Un eccentrico vecchio. In quegli immobili pertugi di mondo Sarastro perpetrava il suo potere, manteneva il suo segreto, soddisfaceva la fame. Era sceso dalla giostra del Creato dagli anni ’20 del XV secolo, e lì nascosto se ne scrollava le spalle del corso sano di molte cose: le leggi fisiche, per esempio…
Nei casali le famiglie si sedevano a desco: le anziane rovesciavano maccheroni con il ragù, gli uomini mescevano vino nero. Sarastro strinse il collo e le spalle della mondina, gli attizzarono l’appetito. 
I grilli all’improvviso tacquero, i cani strepitarono spaventati. La bimba torse il collo verso gli argini del Musone.
Il bosco si aprì con uno squillo di tromba, le fronde stormirono un rimbombo di tamburi, le cicale accompagnarono il rollio dei carriaggi, i pioppi vorticarono nelle polveri di un esercito: Sarastro vide avanzare sulle rive del fiume, a passo di marcia allo scavalco di legno, una colonna in uniforme bianca con le insegne dell’aquila bicipite. La seguivano formazioni col tricolore francese, le insegne bianche e oro con le chiavi e la tiara. Battaglioni di volontari in borghese lanciavano in aria i cappelli e i fazzoletti, spingevano un obice sull’assito del ponte. Uno splendido ufficiale a cavallo, con onori vaticani sul petto, galoppava avanti e indietro i reggimenti e li incitava alla battaglia imminente.
«Viva il Papa!», ruggiva l’armata.
«Viva il Papa ‘sto cazzo.», Sarastro sputò.
La mondina scrocchiò il collo innanzi a loro, al crinale di grano biondo delle colline di Casal di Sopra. Sgranò gli occhi, rantolò.
Sarastro scrutò nell’erba alta: fra le spighe scintillavano le trombe, le penne, le baionette di centinaia di bersaglieri Savoia. Un colonnello con la sciabola e la pistola falciava le gramigne e conduceva l’assalto:
«Viva il Re!», tuonarono i battaglioni.
«Viva il Re ‘sto cazzo.»
Sarastro tirò la bimba per mano, prese a correre per la strada polverosa che finiva nell’aia del suo Casale di Sotto. I papalini procedevano spediti, i pattuglieri in formazione sparsa erano già dall’altra parte del ponte. Gli ufficiali francesi latravano alle colonne di occupare la fattoria e attrezzarsi all’assedio.
«L’assedio ’sto cazzo!», Sarastro scoppiò, «quella è casa mia!»
La mondina incespicò nello steccato, lui la trascinò faccia alla polvere nell’aia; salì in fretta gradini. Cadde col fiato corto innanzi all’uscio del piano nobile. Aprì. Rovesciò la preda dentro, richiuse con il lucchetto. Si accostò ad una finestra gattoni e chiuse le grandi imposte e sbirciò fra le fessure.
«Ridicola merdosissima guerra! per cosa? l’Italia!», grugnì, «Che cosa vogliono da queste parti? perché è toccata a me?»
Le colonne attraversarono il ponte, gli esploratori scavalcarono nel patio. Il primo s’inchiodò dietro una botte sfiorato da una pallottola dai bersaglieri; un altro, con il calcio del fucile, si accanì sui catenacci delle porte del pianoterra. Il cortile crepitò di un’intensa fucileria, i soldati tossirono nello zolfo e nel fumo.
«Se perquisiscono questo posto, se mi catturano, se indovinano che cosa sono…», Sarastro rabbrividì, «Ho poco cibo, non ho potere, non sono in grado di difendermi da un’armata. Devo andarmene, subito, lontano: c’è un’arte che lo consente, ma prima devo nutrirmi.»
Sarastro ravvivò il focolare, tolse l’enorme spiedo dai trespoli nel camino. Si fornì di tenaglie, di un mazzuolo e di un secchiello da mungitura. Denudò la bambina paralizzata dall’incantesimo. Viva, cosciente, le ficcò l’asta di ferro nell’ano e la spinse nelle viscere e la gola: la punta le sgorgò dalla bocca, il corpo si contorse di convulsioni di morte. Sarastro rovesciò quel corpicino a testa in giù nel secchiello da mungitura: il sangue tracimò il contenitore, zampillò su pavimento in una larga pozzanghera. Lui ci pestò sopra uno straccio sporco. Sedette su uno sgabello con il cadavere sulle ginocchia e staccò le frattaglie e le viscere dallo spiedo, usò le tenaglie per toglierle i pochi denti:
«La marmocchia deve avere fra i sette e gli otto anni», gongolò soddisfatto «sta cambiando gli incisivi e i molari. L’età tenera, ho l’occhio lungo»; usò la mazza per slogarle gli arti, la mise ad arrostire.
Sarastro dava fondo al fuoco nero: la stanza non esisteva in quel lasso di spazio-tempo: parte era restata nel passato, parte doveva ancora venire: questo, ancora per un po’, lo preservava dall’assalto dei soldati, dai loro calci alle porte chiuse e i loro spari presenti.
Ingoiò crude le parti molli della bambina, gli occhi, la lingua; salì su una scaletta agli scaffali della libreria. Dalla scansia contrassegnata con la T scelse la “Steganographia” dell’Abate Tritemio, aprì con cura l’originale del ’499 del doppio delle pagine dell’edizione ’606. Scorse l’indice fino ai capitoli perduti con gli incantesimi per comunicare a distanza; si fermò sui vari modi di spostarsi nello spazio.
Abbastanza affidabili. Lo impensierì quella maiuscola per “Weltraum” e il preferire la parola a “platz”: però considerò che fosse regola del tedesco, che si trattava di un manoscritto di quattro secoli prima e soprattutto che era alle strette e non aveva altre chance.  
Al pianterreno sentì schianti più forti, di nuovo si affacciò sulla battaglia.
Sarastro trovò le fanterie papaline schierate per file nell’aia del Casale; e un cannone appostato accanto al pozzo dove gli artiglieri attingevano per raffreddarlo. Sentì gli stivali, gli speroni da cavallerizzo e un tintinnio di medaglie salire per i gradini: in un immobile spazio-tempo sfasato qualcuno picchiava all’uscio con il pomolo della sciabola, gli intimava di aprire nel nome di Pio IX; oppure viceversa.
Lui si riaccucciò sul suo sgabello al camino, si occupò del suo pasto. Staccò dalla bambina allo spiedo l’avambraccio arrossato e scoppiettante, lo addentò: la pelle era croccante, e il muscolo ancora al sangue, quel boccone dolciastro gli scaldò le budella. Succhiò la carne dall’ulna alle falangi; affondò il forchettone, il bulino e il coltello nella corta, polposa coscia della mondina alla brace. Si sentì rinvigorito: non abbastanza da affrontare due eserciti ma quanto occorreva per l’incantesimo di Tritemio.
Pallottole di moschetto sibilarono dalle finestre e frantumarono gli orci, gli alambicchi e le ampolle; forarono le pergamene che pendevano con il bucato. Lo zenzero si sparse sul pavimento con il sale, gli incensi, il pepe e lo zafferano; le braghe da asciugare gli inumidirono i pantacli.
Sarastro si affacciò sulle colline: il maggese era striato dei ciuffi neri lucenti dei battaglioni di bersaglieri che serravano alla carica, l’altura era aggirata al galoppo da squadroni di cavalleria che abbassavano le lance. Sull’arida cresta, sollevato a fatica, serventi in uniforme blu scura puntavano infallibilmente un obice contro di lui.
Sarastro con l’acquolina alla bocca lasciò nel camino quel cadavere mutilato: lo invitavano quelle natiche croccanti, la pelle sciolta in una poltiglia squisita e la cassa toracica spalancata dal fuoco, che scopriva le viscere luccicanti e ben cotte, «ma ahimè!»
A pianterreno si gridava in austriaco, francese, irlandese e anconetano di rovesciare panche e mobili alle finestre e organizzare postazioni di fuoco; un’insegna papalina garrì da un davanzale. Il calcio, gli speroni e l’elsa colpirono la porta in quel lasso di realtà.
Sarastro ritornò sul grimorio. Le pagine insegnavano le figure non euclidee da tracciare sul pavimento e percorrere all’indietro, le porte da disegnare sul muro; quante volte bussare su quell’assurdo disegno. Schivò le pallottole che grandinavano sullo scrittoio, trovò il gessetto bianco, ricopiò le figure.
Mossi pochi passi sul tracciato, l’uscio cedette con uno schianto: Sarastro stolzò.
Quell’altero sbruffone a cavallo che aveva guidato le colonne fin là, attorniato da damerini gallonati in sciaccò, scattò sull’attenti con la sciabola sguainata:
«Generale De Pimodan, esercito pontificio. In nome di Sua Santità Sovrana Pio IX prendo possesso di questa fattoria e…»
Sarastro si sforzò di ritrovare la calma, la necessaria concentrazione per l’incantesimo. Incrociò lo sguardo limpido del Generale e comprese, dalla fiamma che lo attraversò, che la vista della mondina allo spiedo, l’odore d’interiora, carne umana bruciata, la macabra litania dell’incantesimo, la sua veste sacrilega, non gli erano gradite.
Bel guaio.
Il soldato trasecolò, ruggì il nome di Cristo, scansò i lacchè che si piegavano a vomitare e affondò con la spada. Lui recitò l’ultima sillaba del Tritemio, scansò, batté le nocche ossute sul disegno di gesso. La lama di De Pimodan gli affondò nel talare, lo ferì di striscio al costato:
«Fottiti, baciapile.»
L’istante dopo Sarastro non era lì. Piuttosto trascinava le scarpacce logore nella sabbia rovente di un deserto sconfinato: la sabbia bruciava d’ocra intenso sotto un cielo ceruleo senza nubi.
Non riusciva a respirare.
«Non è la calura», inorridì, «non c’è aria, ma dove?…»; cadde a terra supino con i polmoni bruciati. Rantolava, moriva. Lo sconcerto e l’agonia gli spalancarono gli occhi: lo accecarono i raggi di due soli giganteschi che brillavano alti su un orizzonte extraterrestre.
Sarastro spirò. Negli ultimi istanti di dolorosa lucidità si rasciugò con il fuoco nero di tutti i liquidi dell’organismo, smorzò il lume dell’intelletto ed il mantice del cuore. Raccolse la coscienza nello scrigno dell’ipofisi, chiuse gli occhi sulle dune aliene rassegnato ad attendere.


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