“La fotografia è la mia sola lingua. Io non faccio semplicemente delle foto. Io mi esprimo attraverso le foto”. A. KertészAndré Kertész è considerato uno dei maggiori fotografi del XX secolo. Nacque a Budapest il 2 luglio del 1894 in una famiglia della media borghesia ebraica. Dopo essersi diplomato nel 1912 all’Accademia commerciale di Budapest, comperò la sua prima fotocamera, una ICA 4.5×6, un apparecchio maneggevole che utilizzava senza stativo. Arruolatosi nel 1915 nell’esercito austro-ungarico, partì volontario per il fronte russo-polacco, portando con sé una piccola Goerz Tenaxcon obiettivo fotografico da 75mm, con la quale documentò la vita di trincea e le lunghe marce, evitando gli aspetti più crudi della guerra. Nel settembre del 1925, a causa della depressione post-bellica dell’Ungheria si trasferì a Parigi, dove stavano convergendo altri importanti personaggi dell’avanguardia artistica come Germaine Krull, Robert Capa, Man Ray e Berenice Abbott . Intrecciò una profonda amicizia con Gyula Halász, conosciuto come Brassaï. Nel 1928 acquistò una Leica ed insieme a Henri Cartier-Bresson iniziò a lavorare per la rivista Vu. Nel 1929 Kertész partecipò alla prima mostra indipendente di fotografia “Salon de l’escalier”, insieme a Berenice Abbott, Laure Albin-Guillot, George Hoyningen-Huene, Germaine Krull, Man Ray, Nadar e Eugène Atget. Nel 1933 la rivista Le sourire gli offrì cinque pagine da riempire in piena libertà. Per l’occasione il fotografo ungherese affittò uno specchio deformante da un circo e nel suo studio realizzò una serie di fotografie di due modelle, Hajinskaya Verackhatz e Nadia Kasine. La serie conosciuta con il nome di“Distorsioni” applica un surrealismo che nasce da una ricerca sulle possibili alterazioni delle forme corporee.
Interessato alle nuove correnti artistiche americane, decise di accettare l’offerta di Erney Prince dell’agenzia Keystone, trasferendosi insieme alla moglie Elisabeth a New York, nell’ottobre del 1936. Il lavoro alla Keystone durò solo un anno. Le sue immagini non erano ben accette nel panorama fotogiornalistico statunitense, che richiedeva uno stile rigoroso e didascalico. Lavorò come freelance collaborando per molte riviste, tra cui Harper’s Bazaar, Vogue, Town and Country, The American House, Coller’s e Coronet, Look. Continuò a fotografare anche da malato, utilizzando un obiettivo zoom dalla finestra della sua casa affacciata sullo Washington Square Park. Raccolse le foto nel libro From my Window (1981), dedicandolo alla moglie Elisabeth morta di cancro nel 1977. Kertész ha passato tutta la sua vita alla ricerca dell’accettazione del consenso da parte della critica e del pubblico. Tuttavia i suoi lavori, la maggior parte delle volte, furono poco apprezzati. La sua arte non si è mai avvicinata ad alcun soggetto politico ed è rimasta legata ai lati più semplici della vita quotidiana, con toni molto intimi e lirici. Soltanto gli ultimi anni della sua vita e i successivi alla morte segnano un rinnovato interesse verso degli scatti che riescono ad essere senza tempo. Considerato da Henry Cartier-Bresson il padre della fotografia contemporanea e da Brassai il proprio maestro, Kertész ha dimostrato come qualsiasi aspetto del mondo, dal più banale al più importante, meriti di essere fotografato. I costanti mutamenti di stile, temi e linguaggio, se da un lato ci impediscono di collocare il lavoro del fotografo ungherese in un ambito estetico esclusivo, dall’altro ne dimostrano la versatilità e la continua ricerca comunicativa. Nonostante la strada sia stata il soggetto principale delle sue fotografie, non era interessato alla cronaca o agli eventi mondani, quanto alla possibilità di mostrare la felicità silenziosa dell’intimità quotidianità. Kertész ha mantenuto una linea poetica che lo tenne distante tanto dallo sperimentalismo di Man Ray, quanto dall’impegno sociale e politico che avrebbe avuto la sua definitiva consacrazione con la Guerra di Spagna del 1936. Ci lascia immagini che prediligono gli attimi, le emozioni passeggere. Foto che vivono nel ricordo e che evocano ricordi. Il profilo dei comignoli sullo sfondo del cielo. Il gioco di doppi creato dall’ombra di una forchetta in un piatto. Tutto con una capacità modernissima di reinventare il reale. Di seguito un documentario della BBC sul grande maestro.