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Psicologia in carcere

Da Psychomer
by Angela Sofo on febbraio 18, 2013

Uno studio condotto da alcuni ricercatori britannici ha evidenziato come una buona parte del lavoro degli psicologi nelle prigioni sia stato intrapreso con lo scopo di valutare il rischio di recidiva dei carcerati. Verso la fine degli anni novanta, il Dipartimento della Salute inglese aveva segnalato la presenza elevata di disturbi mentali all’interno delle prigioni. Il tasso di depressione nei primi 12 mesi d’incarcerazione variava dal 39% per i maschi condannati, al 75% per le donne in custodia cautelare; il 10% degli uomini e il 14% delle donne in custodia cautelare avevano sofferto di psicosi e più dei due terzi abusavano di sostanze illecite. I detenuti presentavano bisogni complessi che necessitavano di essere ascoltati e, in linea con questa visione, il lavoro da intraprendere con essi avrebbe dovuto essere multiforme, prestando una maggiore attenzione nei confronti dei soggetti più problematici.

I bisogni dei carcerati possono essere riassunti in tre direzioni: bisogni legati alla salute fisica, bisogni legati alla salute mentale e bisogni sociali. Per quanto riguarda i primi, vi è spesso la falsa convinzione che, essendo la popolazione carceraria relativamente giovane, ci si possa aspettare di ritrovare in loro un buon livello di salute fisica. Dietro questa generalizzazione, i dati suggeriscono invece che i prigionieri assumono una serie di comportamenti aventi un impatto negativo sulla salute fisica come fumo, alcol e abuso di sostanze stupefacenti. Nei vari studi effettuati, il fumo viene descritto come una problematica molto comune in carcere; sembra che la probabilità di diventare fumatori sia due volte superiore nei detenuti tra i 18 e i 49 anni rispetto a quella della popolazione generale. Attraverso il lavoro diretto e con l’ausilio di una terapia psicologica, gli psicologi potrebbero contribuire nel supportare i prigionieri a ridurre o a smettere di fumare.

Un’altra grande area d’interesse è l’abuso di alcol. Tra i carcerati sotto i 21 anni, l’82% riporta un forte consumo comparato al 25% del gruppo dai 45 anni in su. Recentemente in Inghilterra è stata sviluppata una gamma di interventi psicologici utile ad aiutare gli individui a limitare il consumo di alcol.

Per quanto riguarda il livello di attività fisica tra i detenuti, è stato evidenziato che essi tendono ad avere un BMI (indice di massa corporea) più basso rispetto alla popolazione generale; questo dato è dovuto probabilmente al fatto di seguire una dieta migliore, alla possibilità di frequentare la palestra del carcere e al ridotto accesso a televisione e videogiochi.

Rispetto ai bisogni legati alla salute mentale, uno dei più dettagliati studi sulla loro prevalenza in carcere è stato condotto nel 1997. La ricerca aveva coinvolto circa 3.653 detenuti, sia uomini che donne, divisi in 3 sottogruppi: maschi in custodia cautelare, maschi condannati e donne sia in custodia cautelare che condannate. La diagnosi più diffusa fu quella di disturbo di personalità antisociale. In questo studio furono analizzati anche i parametri riguardanti l’ideazione suicidaria, i tentativi anticonservativi e ciò che gli autori definirono para-suicidio. In generale furono rinvenuti tassi di autolesionismo più alti nella popolazione bianca rispetto a quella di colore. I detenuti affetti da un disturbo di personalità risultavano essere fra i più giovani; celibi, caucasici e accusati di reati acquisitivi mentre i prigionieri con problemi di abuso di alcol rientravano nella fascia d’età tra i 16 e i 24 anni; anch’essi celibi e caucasici ma incarcerati per lo più per violenza e aggressione. Infine, un maschio su dieci e una donna su tre, riportavano di essere stati vittime di abuso sessuale. In seguito ai dati emersi furono create delle equipe multidisciplinari molto simili ai team che lavorano nella salute mentale pubblica con gli adulti e i bambini. Gli psicologi inglesi hanno quindi la possibilità di contribuire con il loro aiuto, ascoltando e valutando le problematiche che vengono affrontate in carcere.

Per quanto riguarda i bisogni sociali, un rapporto della “Social Exclusion Unit” ha fornito un ampio reportage riguardante i fattori connessi al rischio di recidiva tra i carcerati; ne sono stati evidenziati nove: scarsa educazione, abuso di alcol e droghe, disoccupazione, presenza di disturbi mentali e/o fisici, atteggiamenti assunti e grado di autocontrollo, conseguenze dell’istituzionalizzazione e limitate capacità sociali, non possedere una casa e non avere la possibilità di avere un supporto economico e una rete familiare e sociale sulle quali appoggiarsi. Avere un’occupazione riduce di circa la metà il rischio di ricaduta mentre possedere un alloggio stabile lo riduce di circa un quinto. Da non sottovalutare è il periodo di detenzione; l’incarcerazione costituisce infatti un rischio significativo di recidiva, riducendo di conseguenza i potenziali fattori protettivi. Gli esperti di salute mentale che lavorano in carcere devono quindi considerare questi svantaggi sociali e l’effetto che essi hanno avuto e che avranno ancora. L’ambiente sociale e culturale nel quale i detenuti saranno rilasciati e nel quale si spera riescano a reinserirsi, sarà il contesto in cui dovranno cercare di applicare ogni nuova conoscenza, capacità e cambiamento di cui hanno beneficiato durante gli interventi psicologici in prigione, di conseguenza sarà essenziale che gli psicologi abbiano una buona comprensione dell’importanza dei vari interventi da attuare: assistere gli ex carcerati nel trovare un lavoro e una sistemazione stabile, aiutarli a risolvere i problemi legati all’abuso di alcol e droga e incoraggiarli a costruirsi una vita migliore fuori dalle mura carcerarie.

Bibliografia

Crighton, D. A. & Towl, G. J. (2008, 2nd ed.). Prisoner needs. In D. A. Crighton & G. J. Towl. Psychology in prisons (pp. 57-70). Oxford, UK: Blackwell


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