C’è un ciclismo che si rialza dopo l’asfalto. C’è un ciclismo che si disinfetta le ferite perché ogni giorno deve ripartire, non c’è pioggia che tenga. Meglio il dolore, meglio il rischio piuttosto che andare a casa. C’è un ciclismo che ha corso anche oggi, invisibile dietro il muro di polemiche sterili. Sterili come quella terra maledetta nella quale continuiamo a nascondere i rifiuti. Non cresce niente e ci facciamo del male.
Mestiere duro quello del ciclista. E’ vero, l’hanno scelto. Ma alle scelte del cuore non si può dire mai di no. La strada è vita, diceva il buon Jack e se non la si ascolta si muore dentro.
La fuga di oggi è partita al chilometro nove. Haas, Anacona, Boem, Chalapud e Thurau. Bjorn Thurau ieri, prima di una rotonda, è scivolato sull’asfalto viscido assieme a molti altri. Si sa che le botte si fanno sentire sempre dopo, a distanza di giorni e forse per qualcun altro sarebbe stato più giusto restare al caldo, nella pancia del gruppo, lasciare lavorare gli altri per una volta. Almeno per questa volta. Invece Bjorn ha la testa dura, è un combattente. Passista elegante in bicicletta e con le gambe nervose e lunghissime di chi può aggredire le salite senza subirle. E’ in fuga, di nuovo, anche oggi. La caduta, il contatto con l’asfalto non può niente contro il sogno del traguardo.
E’ lontano l’arrivo, ci sono due GPM da scalare e queste fughe sono per quelli che credono nelle sfide, che hanno fiducia nelle loro gambe e il coraggio di affrontare quei chilometri al vento, scoperti, a tutta, cercando di accumulare più secondi possibili. Ogni pedalata è un gradino, è uno sforzo, un granello di speranza in più nella clessidra del tempo che scorre sempre troppo veloce.
Vanno d’accordo, sono un unico treno che va verso un’unica stazione. Niente fermate intermedie, è come una crono contro il gruppo che sulle prime li lascia fare. Arrivano a otto minuti, poi il tempo diminuisce, si stabilizza, e poi di nuovo aumenta: sono sul filo di loro stessi.
Qualcuno pensa che siano segnati, che le squadre dei velocisti faranno di tutto per avere un’altra opportunità su questo traguardo piatto. Eppure là, sei o sette minuti più avanti, i cinque si aggrappano ai GPM come cerbiatti. Qualcuno dice che sul traguardo troveranno pioggia, eppure davanti i ragazzi partiti al chilometro nove guardano solo la strada che si snoda sotto le loro biciclette. Asfalto che corre via, che scivola, compagno cattivo e buono allo stesso tempo.
Quando mancano dieci chilometri all’arrivo, il vantaggio è ancora discreto. Assieme alla lavagnetta che segna il distacco dal gruppo si costruiscono le speranze: gessetti bianchi un po’ polverosi sul nero del tempo che non sanno ancora se li aiuterà. La strada ora è tutta diritta, il rettilineo è un suicidio. Si mettono in fila, sanno che il gruppo li vuole riprendere, che sta tirando con i migliori gregari. Sanno tutto. Eppure sperano che quel treno di cinque uomini freghi tutti quanti, sperano di arrivare al traguardo e prendersi la tappa. Una tappa del Giro con una fuga da lontano.
Nicola Boem fa un gesto a Bjorn: va troppo veloce, non riesce a tenere il ritmo. Il tedesco vuole a tutti i costi arrivare. Il sacrificio, le gambe, il cuore che mette nelle sue azioni cercano la vittoria e per la linea bianca che adesso è a pochi chilometri si fa di tutto, anche quando le cose sembrano già decise.
Sei chilometri, ne mancano solo sei e il distacco scende rovinosamente. Il gruppo sta arrivando, è un enorme mostro che corre lungo quel rettilineo, cancella quei gessetti ad uno ad uno. Due minuti tondi e poi ancora giù. Un minuto, le teste basse dei cinque attaccanti, le gambe che urlano per la fatica, la testa che non si vuole arrendere a quel verdetto e i metri che non passano mai.
Pugili. Pugili di strada che non vogliono abbandonare il ring da sconfitti, che si vogliono rialzare, anche dopo una caduta, anche dopo esserne usciti mezzi rotti. Pugili che continuano a pedalare con il sudore negli occhi e il male per l’acido lattico recente e le botte del giorno prima. Denti stretti, mani sul manubrio come se fossero nei guantoni.
Una manciata di secondi come una manciata di metri. Mancano solo due chilometri alla linea bianca di Foligno quando il gruppo se li mangia tutti e cinque.
Bastava poco, bastavano ancora un po’ di secondi, ancora un po’ di fortuna. E invece quell’ultimo tratto d’asfalto diventa terreno di caccia per i velocisti. I treni si mescolano, qualcuno battezza la ruota di Nizzolo, qualcuno quella di Viviani e poi cambia ancora. Nizzolo, Bouhanni, Nizzolo, Bouhanni. Ancora Nacer Bouhanni per la seconda volta. Mezza ruota, forse anche meno.
Un pugile lui lo era veramente, come suo padre. “La bicicletta e la boxe sono sport duri” dice dopo l’arrivo, con gli occhi lucidi per lo sforzo recente e il sorriso appena accennato.
Sì, la bicicletta e la boxe ti insegnano a sopportare il dolore, a rialzarti perché non hai alternative. Stare su due ruote, con i piedi infilati negli scarpini e sentire le punte dei piedi spingere talmente tanto da far male ti fa strappare via il coraggio a morsi. Bisogna trovarlo, a tutti i costi.
C’è un ciclismo che ci insegna ogni giorno un po’ di vita. Bisogna essere un po’ dei boxeur quando il gioco si fa duro. Infilare i guantoni e sfidare l’avversario come Nacer che ha trovato il suo varco tra una bicicletta e una transenna e allo stesso tempo avere piedi veloci, gambe leggere come quelle di Bjorn che ha ignorato i lividi e ha seguito il richiamo della strada. La strada che è un po’ come la campanella del ring. E’ il nostro verdetto, il nostro destino.