«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Luigi Baldi, laureato in Filosofia e in Giurisprudenza e dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova. Insegna Storia e Filosofia presso un liceo scientifico, collabora alla sezione Storia delle idee e filosofia della cultura del dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Genova, ed è autore del volume “Veritas mutabilis. Natura umana e ricerca della verità in Tommaso D’Aquino” (Accademia Ligure di Scienze 2006), e di vari articoli sul pensiero del Dottore Angelico»
di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia
L’episodio nel 2008 della rinuncia del papa Benedetto XVI a intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università La Sapienza di Roma ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica il caso Galilei. Tale caso, infatti, è stato preso a pretesto dai contestatori dell’invito, attraverso il richiamo a una citazione che il Papa ha fatto, ancora cardinale, in un discorso tenuto proprio alla Sapienza del filosofo della scienza americano Paul Feyerabend (1924-1994). L’episodio rivela che in alcuni ambienti filosofici e scientifici persiste pervicacemente un’immagine di Galilei come di una sorta di mito e martire del libero pensiero scientifico, contrapposto all’oscurantismo clericale, e simbolo di un conflitto strutturale e insanabile tra Chiesa e scienza, in ultima istanza tra fede e ragione. Si è diffusa, peraltro, negli ultimi tempi, anche in ambienti cattolici una lettura volta a ridimensionare i contenuti del caso Galilei, tendendo a presentare la controversia che lo vede protagonista come una questione di metodo o semplicemente di rapporti personali tra lo scienziato pisano e il cardinale Bellarmino o papa Urbano VIII, sottacendo le conclusioni della commissione istituita da Giovanni Paolo II allo scopo di studiare il caso e autorevolmente da lui avallate. La superficialità e l’approssimazione di molti commenti e giudizi espressi in tale occasione rivelano un approccio schematico e ideologico a un problema di grande complessità sia dal punto di vista storico che speculativo.
CONTESTO STORICO
Il caso Galilei deve essere, innanzitutto, considerato nell’ambito della rivoluzione scientifica che segna l’inizio dell’età moderna tra Cinquecento e Seicento e che è innanzitutto una rivoluzione astronomica. I fenomeni celesti, infatti, a causa della loro regolarità, risultarono analizzabili con lo strumento matematico (il metodo scientifico considerato più adeguato alla natura) in modo particolarmente agevole ed efficace rispetto agli stessi fenomeni naturali terrestri. Proprio nel campo astronomico, infatti, si registrano le posizioni più sconvolgenti. Il polacco Niccolò Copernico propose una spiegazione dell’universo di tipo eliocentrico, tale da capovolgere la concezione fino ad allora ritenuta valida, quella geocentrica, propria del greco Tolomeo e legata alla fisica di Aristotele. La teoria copernicana non si poneva ancora in diretto conflitto con la fisica di Aristotele, in quanto, era pur sempre basata su una visione dualistica dell’universo, distinto in mondo celeste e sublunare o terrestre. Poneva, però, le premesse del suo scardinamento perché, contrastando con le sue esplicite affermazioni geocentriche (“la terra non si muove e non si trova altrove che al centro”, dice per es. nel “De caelo”), otteneva il risultato di detronizzare la terra e l’uomo con lei. Affermare che la terra è dotata di movimento come i corpi celesti significava, infatti, porre fine alla loro posizione privilegiata: terra e uomo sembravano vagare come gli altri corpi in un universo non più pensato come una sfera finita e chiusa, determinata e compiuta in se stessa, ma, in base a quanto sosteneva proprio alla fine del Cinquecento Giordano Bruno, come infinito, tale da contenere un numero infinito di mondi, senza un centro vero e proprio. L’uomo europeo del Seicento, ancora scosso dalla scoperta dell’esistenza di altri popoli oltreoceano, vide improvvisamente crollare la concezione del mondo che costituiva il paradigma culturale da sempre ritenuto evidente. Lo “shock culturale” provocato dalla nuova scienza produsse un’impressione di sconcerto e di angoscia esistenziale paragonabile alla caduta dell’impero romano d’occidente per Agostino e gli uomini colti del quinto secolo o alla diffusione della spiegazione darwiniana di fine ottocento dell’origine dell’uomo. L’età moderna si apriva, così, con l’interrogarsi inquieto e drammatico di un uomo, che non riconosceva più il cosmo come la propria casa, perdeva la stabilità e certezza di un punto di riferimento fisico e diventava nomade, pellegrino errante insieme alla terra in un mondo che si muove senza un fine. La cosmologia si separava, così, dalla metafisica. Il senso ultimo della realtà non aveva più una proiezione e una corrispondenza nel mondo della natura, caratterizzato da un procedere cieco, in base a un principio di pura necessità, alla mera legge della causa e dell’effetto. E’ il senso nuovo dell’angoscia, della vertigine di fronte all’abisso del nulla, che ispirerà le riflessioni esistenziali di Pascal e Kirkegaard, il lamento accorato dello Jacopo Ortis del Foscolo sulla natura e l’“incomprensibile suo sistema”, il drammatico interrogativo di Leopardi alla luna del “Canto di un pastore errante nell’Asia”, e dell’uomo folle de “La Gaia scienza” di Nietzsche.
LA POSIZIONE DELLA CHIESA, DEI PROTESTANTI E DEGLI ARISTOTELICI
La soluzione copernicana si presentava, in effetti, più semplice di quella tolemaica, in grado di ovviare agli inconvenienti e alle contraddizioni che emergevano in quest’ultima. L’astronomo polacco, tuttavia, non riuscì a provarla in modo convincente, tanto che il suo collega tedesco Osiander, curatore dell’opera principale di Copernico “De revolutionibus orbium coelestium”, inserì una prefazione anonima, invitando a considerare la spiegazione eliocentrica come una semplice ipotesi matematica. Per giustificare il moto dei corpi, del resto, Copernico addusse argomenti teologici di matrice platonica, parlando del sole come di un sovrano che siede su un trono e che è fonte di luce, di vita, immagine di Dio. Tale moto, del resto, per lui era ancora circolare: sarà Keplero a scoprire e dimostrare che l’orbita dei pianeti è ellittica. Galilei, dal canto proprio, con la scoperta, grazie al telescopio, delle irregolarità della superficie lunare, dei satelliti di Giove, delle fasi di Venere e delle macchie solari, mise in crisi l’idea aristotelica di un cielo immutabile e incorruttibile. In realtà la sua polemica non era rivolta tanto contro Aristotele, quanto piuttosto contro gli aristotelici del suo tempo. Costoro, infatti, invitati a guardare attraverso il cannocchiale pretendevano di mettere in dubbio e disputare ciò che si vedeva, in base all’ipse dixit. In tal modo, attraverso una pedissequa e letterale osservanza dei testi del filosofo greco, finivano per tradirne lo spirito più profondo di acuto osservatore della realtà naturale e umana e, comunque, di pensatore convinto che la conoscenza del nostro intelletto non può che passare, nel suo stadio iniziale, attraverso i sensi. La ricerca scientifica, sottolinea il pisano, progredisce non in base al principio di autorità ma in virtù dell’osservazione dei fatti. Con Copernico la cosmologia si separava anche dalla teologia. L’ipotesi eliocentrica pareva contrastare con alcuni passi dell’Antico Testamento, tra i quali quello in cui Giosuè ordina al Sole di fermarsi per poter sconfiggere gli Amorrei (Gs 10,12-13) e quello che accenna alla Terra che “rimane sempre al suo posto”, mentre “il Sole sorge e tramonta tornando al luogo dal quale si è levato” (Qo 1, 4-5). L’eliocentrismo incontrò per questo una forte opposizione innanzitutto nel mondo protestante, in virtù del richiamo alla Bibbia come fonte esclusiva della Rivelazione, che rendeva i seguaci della Riforma particolarmente sensibili a qualunque problema di incompatibilità letterale con la Parola di Dio. Lutero parla di Copernico come di un “insensato” e “un astrologo da quattro soldi” mentre giudizi altrettanto drastici giungono da Calvino e dallo stesso Melantone.
Più articolata la posizione all’interno della Chiesa Cattolica, dove le idee dell’astronomo polacco furono inizialmente accolte con interesse, in particolare dai Gesuiti, tanto che Copernico insegnò astronomia a Roma e medicina a Bologna, partecipò alla commissione del Concilio Lateranense V, incaricata della riforma del calendario, dedicò il suo “De revolutionibus” al Papa Paolo III, mentre presso l’Università cattolica di Salamanca, nel 1561, la sua concezione astronomica risulta insegnata in concorrenza con quella tolemaica. Un problema di rapporto tra le Sacre Scrittura e la visione eliocentrica sorse all’inizio del Seicento quando quest’ultima si diffuse al di fuori dell’ambiente matematico e cominciò a essere considerata, non come una ipotesi matematica volta a calcolare meglio le posizioni dei pianeti e spiegare i fenomeni celesti, ma come una teoria, cioè una verità fisica, un fedele rispecchiamento della realtà naturale. La teologia cattolica e gli ambienti della Curia romana si orientarono, allora, in senso critico verso una teoria non sufficientemente motivata, che contrastava con l’interpretazione letterale del testo sacro da sempre ritenuta autentica. Il problema è complicato dal fatto che Copernico sembrava attribuire alla centralità del sole un significato mistico-religioso di tipo magico-sacrale o, almeno, così la sua posizione era interpretata dagli ambienti neoplatonici, neopitagorici ed ermetici del Cinquecento, a cui facevano riferimento Ficino, Bruno, Campanella, convinti della natura spirituale dei corpi celesti. Il dibattito sul sistema copernicano si inserisce, infatti, in una partita a tre tra scienza, magia e fede cristiana, tipica del XVI sec. Magia naturale, astrologia e alchimia giocarono un ruolo fondamentale nello stimolare il rinnovato interesse per la scienza naturale. Mago, astrologo, alchimista e scienziato erano spesso accomunati dal metodo, consistente nella ricerca delle cause dei fenomeni naturali, da individuarsi nella loro dinamica interna. Il fine di tale ricerca, poi, non era inteso come meramente speculativo, ma innanzitutto pratico, volto al dominio delle forze della natura, intesa come un corpo vivente, una totalità quasi divina. Rispetto alle interpretazioni magiche della natura, tuttavia, la posizione delle Chiese era fortemente critica. La Chiesa Cattolica trovò, poi, nel Seicento un alleato, sebbene solo di fatto, paradossalmente proprio nel nuovo spirito scientifico galileiano-cartesiano, che, ispirandosi al metodo matematico, escludeva qualunque rilevanza di componenti magiche o astrologiche nella conoscenza naturale. Non a caso la Congregazione del Santo Uffizio in occasione della convocazione di Galilei del 1616 condannò la “dottrina pitagorica della mobilità della terra e dell’immobilità del sole”, intendendo riferirsi alla prima formulazione di un’ipotesi eliocentrica (il fuoco centrale, attorno a cui ruotano i corpi celesti), propria della scuola pitagorica, nell’ambito di una concezione magica del mondo legata al numero. Da questo punto di vista gli ambienti della Chiesa più impegnati contro la magia e i culti astrali in nome della centralità della ragione, come era nella tradizione scolastica, erano gli stessi che diffidavano di Copernico e soprattutto delle interpretazioni che circolavano del suo sistema.
GALILEI E LETTURA DELLE SCRITTURE
Galilei, dal canto proprio, sul piano teologico, è convinto che Dio si è rivelato all’uomo con due libri, quello della natura, scritto nel linguaggio matematico, e quello della Scrittura, cioè con la Creazione e con la Parola, e che tra di essi non può esistere contrasto. Ne deriva, come scrive nella lettera al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613, che la verità della fede e quella della scienza non possono essere in reale contraddizione, come del resto risulta dalla riflessione teologica e filosofica della tradizione cristiana sull’armonia di fondo tra fede e ragione. Se un conflitto emerge è necessariamente apparente e va imputato a un’erronea interpretazione dell’una o dell’altra. Qualora si tratti di questioni inerenti a realtà sovrannaturali l’errore è nella lettura e interpretazione del libro della natura e occorre seguire la parola di Dio come rivelata nella Scrittura. Se, invece, il conflitto riguarda questioni attinenti alla realtà naturale, l’errore è da cercare nell’interpretazione della Bibbia ed è tale lettura che va rivista, occorrendo seguire la parola di Dio come rivelata nel libro della natura. Il linguaggio della Scrittura, infatti, non va interpretato alla lettera ma tenendo conto del suo carattere antropomorfico, cioè del fatto che è a misura d’uomo e utilizza figure e immagini comprensibili anche dagli uomini semplici e privi di istruzione. Il fine della Scrittura, poi, non è scientifico ma salvifico, religioso: Galilei, citando una efficace affermazione del cardinale Baronio, successore di San Filippo Neri, era convinto “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadi in cielo, e non come vada il cielo”. La Bibbia non è per sé un testo scientifico o un libro di storia, ma una guida per i Credenti, in cui Dio rivela all’uomo la via della salvezza. Giovanni Paolo II osserva che Galilei, nella succitata Lettera a Benedetto Castelli e nella lettera alla Granduchessa Madre di Toscana, Cristina di Lorena del 1615, scrive “un piccolo trattato di ermeneutica biblica”. In tal modo anticipa il riconoscimento da parte dell’enciclica “Divino afflante Spiritu” di Pio XII della legittimità della “pluralità delle regole di interpretazione della Sacra Scrittura” sulla base della “presenza di diversi generi letterari nei libri sacri” e quindi della “necessità di interpretazioni conformi al carattere di ognuno di essi”. I testi della Scrittura, ricorda Galilei, non possono errare ma possono errare i teologi nell’interpretarne il significato, se si soffermano solo sul senso letterale delle parole, senza guardare all’intenzione di fondo che li ispira. Le risposte alle domande sui fenomeni naturali, infatti, sono date non dall’autorità della Scrittura o di Aristotele, ma dalle “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni”, cioè attraverso il metodo matematico-sperimentale. Questo è basato sulla formulazione di una ipotesi e la successiva verifica “in laboratorio”, atta eventualmente a trasformare l’ipotesi in teoria e legge scientifica.
IL PROCESSO
Il nuovo metodo pose con urgenza il problema del rapporto tra la Scrittura e la sua interpretazione, che la teologia del tempo non colse in tutta la sua complessità e novità. Giovanni Paolo II osserva che “Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi”, il cui errore, “nel sostenere la centralità della terra fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della S. Scrittura”. Il cardinale Bellarmino, in verità, sembra consapevole della questione nel momento in cui, nella Lettera al Padre A. Foscarini, 12 aprile 1615 scrive: “Dico che quando ci fusse vera demostratione che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e piú tosto dire che non l’intendiamo che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata”. Bellarmino non si dimostra pregiudizialmente contrario al sistema copernicano e a Galilei; del resto la condanna di quest’ultimo (1633) è successiva alla sua morte (1621). Il rapporto tra Galilei e l’autorità della Chiesa risulta in effetti non riducibile alle facili schematizzazioni degli “opposti estremismi”. In un primo tempo il problema delle implicazioni teologiche del sistema copernicano e delle scoperte galileiane semplicemente non si pose. Nel 1611 lo scienziato pisano sollecitò un pronunciamento dei Gesuiti del Collegio Romano, che si mostrarono interessati alle sue scoperte (compreso il Bellarmino), e fu accolto nella Accademia dei Lincei. Il decreto del 1616 della Congregazione dell’Indice condannò la dottrina copernicana in quanto teoria scientifica, consentendo che la medesima fosse proposta come ipotesi matematica e inserì nell’indice dei libri proibiti il “De revolutionibus orbium coelestium”, finché non fosse stato in tal senso corretto (donec corrigantur) eliminando la parte relativa alle Sacre Scritture. La condanna di Galilei del 1633 all’abiura pubblica e alla prigione a vita, commutata successivamente negli “arresti domiciliari” nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, fu motivata proprio con l’argomento che Galilei, pur ammonito a mantenere il silenzio sulla questione, proponeva il sistema copernicano non come mera ipotesi matematica, ma come una effettiva realtà fisica, provocando l’opposizione del papa Urbano VIII, che pure lo aveva precedentemente appoggiato (leggendaria sembra, tra l’altro, la frase “Eppur si muove” a lui tradizionalmente attribuita in questa occasione, in quanto originata da una ricostruzione di fantasia del giornalista e letterato Giuseppe Baretti nel 1757). Da questi due pronunciamenti e dalle parole del cardinale Bellarmino risulta che la Chiesa, certo non unanime sulla questione, non era, in definitiva, interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé, ma solo nella misura in cui questo era proposto come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. I rapporti tra Galilei e la Curia romana peggiorarono nel momento in cui parve a quest’ultima che il primo esorbitasse dalla sua competenza scientifica fisico-matematica e pretendesse di cimentarsi senza titolo nell’esegesi della Parola di Dio. Il problema era che Galilei non disponeva ancora di prove certe e inconfutabili a sostegno dell’eliocentrismo, adducendo tra l’altro come argomento l’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare. La Chiesa, d’altro canto, appariva, oltreché impegnata a tutelare un senso di stabilità, anche fisica, che l’uomo comune sembrava perdere dinnanzi allo sconvolgimento portato dal sistema copernicano, anche timorosa che la libertà di ricerca scientifica divenisse criterio di interpretazione e di giudizio della Sacra Scrittura.
L’idea di una superiorità della ragione sulla rivelazione e sulla fede, che non è propria di Galilei e ancora meno di Copernico, si affermerà, in effetti, a partire da Spinoza come una delle tendenze di fondo del pensiero moderno. La rivendicazione della legittima autonomia della ricerca scientifica e del rigore del metodo matematico-sperimentale, d’altro canto, si accompagnava in Galilei ad una chiara consapevolezza, non da tutti avvertita, del danno che proviene alla fede dal coinvolgimento dell’autorità della Scrittura in questioni opinabili e legate al variare delle concezioni fisiche e cosmologiche. Già Tommaso d’Aquino, aveva messo in guardia quattro secoli prima dal rischio per l’autorevolezza della fede di appoggiare quest’ultima su verità razionali non sufficientemente fondate e argomentate, essendo preferibile in materia astenersi dal dire ciò di cui non si può parlare con certezza. Proprio l’insufficienza delle prove addotte da Galilei a sostegno della propria tesi cosmologica è alla base del giudizio critico dell’epistemologo Feyerabend citato dal Papa e che gli è stato impropriamente attribuito come prova di un suo presunto atteggiamento antiscientifico: “La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione”. D’altra parte, commenta il cardinale Ratzinger, “sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande”. Il Papa non avalla il giudizio di Feyerabend ma prende atto che proprio dal seno del pensiero scientifico contemporaneo emerge la consapevolezza dei limiti della razionalità scientifica. La sua conclusione, però, non è nel senso di contestare per questo la razionalità scientifica in quanto tale, ma di proporre un allargamento del concetto di ragione, non solo come strumento matematico-sperimentale ma come logos, facoltà dell’uomo che lo apre alla totalità del reale nella molteplicità delle sue dimensioni.