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"Qualcosa di scritto" di E. Trevi

Creato il 27 agosto 2012 da Bens
E' un paese buffo l'Italia, fatto di martiri e demoni, vittime e carnefici, senza possibilità di conversione o comprensione. In questo paese buffo e anche un po' brutto, la gente, perennemente posseduta dallo spirito dell'ultrà, fa il tifo. Sì, perché in Italia non si ragiona mica, in Italia si tifa per la santificazione del nuovo leader da popolino oppure si tifa per la defenestrazione del tiranno. Ma la cosa sorprendente è che, più cresco, più mi piacciono le mezze misure, gli armistizi. Fatevi due conti sul punto della mia vita. Prendiamo Pasolini, ad esempio. PPP si ama o si odia. O viene venerato come un profeta o stigmatizzato come un lurido pedofilo. O viene celebrato come la voce di una generazione italiana o viene tacciato per checca comunista. Quindi, adesso, spiegatemelo voi, dove dovrei inserirmi io. E stiamo attenti alle scelte, perché da esse deriveranno le derisioni da bulletti di quartiere di qualsivoglia fazione opposta. Che bella l'Italia, un grande ed immenso asilo.
Emanuele Trevi, che è un grandissimo scrittore, uno dei migliori in Italia, e il fatto che non abbia vinto il Premio Strega la dice lunga sull'insensatezza dell'evento in sè, ha scritto un libro giusto. A parte qualche scivolone da fan di PPP più che da studioso, Trevi ci consegna un'opera integra, anche nelle intenzioni. Pasolini aleggia, ma non disturba, non si fa polemica, non c'è retorica, c'è una protagonista che di Pasolini ne era innamorata, ma non è una figura positiva, anzi è quasi indisponente, alla fine patetica e triste. Qualcosa di scritto è un libro calmo, prudente, ed è inevitabile che sia così. Quando si parla di Pasolini bisogna essere prudenti. E' una sorta di tacito diktat imposto dalle coscienze.
Io ho conosciuto Pasolini prima di tutti i miei amici. Primo anno di università, andavo in libreria per cercare un libro su Pavese e sono uscita con tre libri di Pasolini. Ero ancora una bimbetta maleducata e radicale, ma cominciavo a soffrire gli slogan preconfezionati, i capetti da collettivo, l'intimità dei loro circoli privati da fumatori di erba. Pasolini si è imposto in un periodo di sbando per le mie opinioni, non mi muovevo più con sicurezza, non accettavo più gli imperativi categorici e credo che lui sia stata l'ultima cosa che io abbia strenuamente difeso con rabbia e furore. Ma non difendevo lui, difendevo me. Per colpa di qualche refuso cattolico, non sono mai riuscita ad alzare le spalle davanti ai pettegolezzi e alle insinuazioni circa i suoi appetiti sessuali, e non parlo dell'omosessualità, quanto di quella tendenza alla fascinazione che corpi fin troppo giovani esercitavano su di lui. Mi deludeva molto. Ma non si può mica dire, perché se Pasolini era un pedofilo e basta, si deve negare l'immensità della sua azione intellettuale, ma se si celebra solo quella, il resto viene sussurrato con imbarazzo o addirittura azzittito come volgari e borghesi pregiudizi. Dice bene Trevi, quando afferma che a Pasolini mancava la profezia del giornalista, ma era fortunato perché aveva il dono dell'analisi attuale e se alcune cose dette e scritte valgono ancora è perché l'Italia è un paese buffo, dove non cambia nulla dal 1946.

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