Spesso sentiamo parlare di bullismo, come di un fenomeno che coinvolge bambini, ma soprattutto ragazzi delle classi medie o superiori. Iannaccone, nel suo libro “Né vittime, né prepotenti” (2007), lo definisce un tipo di atteggiamento aggressivo, caratterizzato da intenzionalità, sistematicità e asimmetria di potere.
Le azioni messe in atto più frequentemente sono lo scherno, l’esclusione, l’umiliazione, la richiesta di cibo, denaro o altri oggetti. La dinamica relazionale che si viene a creare prevede tre figure: un bullo, ovvero colui che in qualità di leader tira le fila del “gioco”, determina il capro espiatorio e le modalità con cui esercitare la sua “autorità”; la vittima, ossia la persona presa di mira che solitamente corrisponde ad un outsider, ad un secchione o semplicemente al più debole. Infine, vi sono i cosiddetti “gregari”, ovvero coloro che potremmo chiamare “spalleggiatori”, in quanto fungono da sostegno del bullo. Sono alle dipendenze del capo, perché fanno quello che potrebbe piacere a lui, in questo caso, prendersi gioco di un compagno debole.
La cosa importante da sottolineare è che il bullo senza gregari non sarebbe nessuno.
Assistere ad un atto di bullismo non è infrequente. A me è capitato un paio di mesi fa, in pullman, mentre stavo ritornando a casa dall’università. Un bullo, semisdraiato su due sedili, due gregari, seduti sui sedili paralleli a quello del bullo e la vittima, seduta un sedile più avanti.
Il bullo parla di continuo, utilizza un linguaggio alquanto colorito; gli argomenti sono ragazze, motorini, scuola. Ogni tanto si fa beffe della vittima e i gregari lo sostengono, facendo a loro volta lo stesso. La cosa particolare è che il bullo non si prende gioco solamente della vittima, ma in maniera più velata e meno pesante, anche dei gregari. Lo scopo è, infatti, quello di farli sentire parte della sua cerchia amicale, ma al tempo stesso, inferiori a lui. Non c’è paragone, però, con quello che viene inflitto al capro espiatorio e la sofferenza che prova è manifesta nel suo viso triste, ma quasi rassegnato. Negli occhi il desiderio di essere accettato e la disillusione che nulla potrà cambiare. Ogni tanto getta un’occhiata verso di me, verso altre persone, come a chiedere un aiuto, ma nessuno muove un dito. Nessuno dice nulla. Vorrei fare qualcosa, ma non riesco. Non so come dargli una mano: rivolgendomi a lui o a loro.
Nell’esitazione e per una mia mancanza di coraggio, il tempo passa e sfuma l’occasione di intervenire e oppormi ad una situazione offensiva e lesiva. Come me, lo stesso fanno gli altri, quasi avvezzi ad una simile scena. L’abitudine, la mia stessa paura, o forse, il fatto di non ritenersi coinvolti in quello che sta accadendo lasciano inermi e impediscono di “intromettersi”. Non ci siamo sentiti responsabili, quando invece lo eravamo tutti, dal primo all’ultimo. Abbiamo permesso al bullismo di continuare, lo abbiamo accettato e siamo diventati gregari, nostro malgrado.
Gli psicologi sociali parlerebbero di “influenza sociale”, o meglio di “diffusione della responsabilità”, che prevedono la manifestazione di una risposta comportamentale non diversa da quella degli altri. “Se tutti non dicono niente, perché dovrei farlo io? La responsabilità non è di certo mia”. Di conseguenza, ognuno continua a farsi gli affari propri. C’è chi guarda fuori dal finestrino, chi legge un libro o un giornale, chi ascolta l’i-pod, chi parla con il suo vicino, chi chiude gli occhi per dormire o per non essere coinvolto. “Lavarsi le mani” è la soluzione più comoda, ma non è quella più giusta. Interessarsi dell’altro non vuol dire intromettersi, ma prendersi cura di lui con una cura non invasiva, ma al contrario prevista dal nostro essere cittadini ed esseri umani.
Adriano Zamperini, nel testo “Le prigioni della mente” (2004) parla di inerzia, ritenendo che il nostro modo di vivere è a volte spinto da una forza intrinseca a sé stante. Non ci fermiamo per riflettere, non acceleriamo, non rallentiamo. Andiamo avanti secondo un moto indipendente da noi. E noi dove siamo? Chi siamo? Siamo parte di una società, di una comunità, di una famiglia, ma siamo anche individui, soggetti e soprattutto “persone”, con una loro mente e una loro riflessività. Siamo perciò capaci di riconoscere quando qualcuno sta esercitando sull’altro un’autorità eccessiva, una sottomissione a parole, un’umiliazione, un atto che ferisce l’autostima, l’identità e la sensibilità.
Quando non alziamo nemmeno un dito, i veri bulli siamo noi… perché il bullismo non è il frutto di una sola persona avente un atteggiamento aggressivo, ma anche e soprattutto di coloro che rimangono a guardare.