Dunque, pare che nel 1968 quando riuscirono finalmente a pubblicare il loro primo album (questo) il chitarrista Francis Rossi e il bassista Alan Lancaster fossero già qualcosa come sei anni che ci provavano a sfondare con i nomi più disparati. La citazione latina fu un’improvvisazione del padre italiano di Rossi, ignaro di aver segnato la strada di una delle rock band più longeve e miliardarie del pianeta….
Dunque sia il nome del gruppo, Status quo, che la svolta psichedelica (la band veniva dal rock n’roll anni ‘50 ed era già transitata per un periodo hard/blues) derivavano dal tentativo di volerci provare a tutti i costi di un gruppo di post adolescenti dei sobborghi della Swinging London (Guilford e dintorni) che stavano cominciando a diventare nervosi rispetto alla scelta di tentare di guadagnarsi il pane con la musica.
Tentativo riuscito: l’album entrò in classifica (anche se non proprio ai vertici: settimo posto in Uk e 12° negli Usa) sgomitando fra i lavori di altri figli dei fiori come i Beatles, i Pink Floyd, Bee Gees, Cream , a cui somiglia senza raggiungerne le vette. La chitarra c’è, più delle voci, ed è già bella potente e precisa. Gli Status quo erano diventati musicisti professionisti, anche se non di grande successo. Quello sarebbe arrivato quattro o cinque anni (e dischi) dopo, con i dischi di platino come se piovessero, lo stile non più psichedelico ma “hard boogie” con quella miscela fra R&B all’inglese e schitarrate alla Clapton che ha riempito per i trent’anni successivi la programmazione delle radio e gli stati sulle due rive dell’oceano (in Italia, per verità, mica molto: non so se siano neppure mai venuti a suonare). Negli anni 70 sono statiforse la band inglese numero uno al mondo, dopo i Led Zeppellin prima del ciclone punk. Per tacere del rinnovato successo ottenuto negli Ottanta e Novanta con le partecipazioni alle varie edixioni del Live Aid…
Ma, ritornando al 1968 e a questo disco: era possibile intuire già la futura grandezza? Per anni si era favoleggiato di un capolavoro dimenticato con voci alla John Lennon e strumenti alla Pink Floyd. La nuova edizione De Luxe (due dischi, versione mono e stereo dell’originale più un bel po’ di inediti del periodo) forse finisce un po’ per appesantire la frescezza del prodotto, che indubbiamente c’è e ricorda, più che altro, gruppi psichedelici di oltreoceano del periodo come i Chocolate Watch Band, i Seeds e i Lemon Pipers (non a caso una delle tracce, Green Tambourine, è la cover del loro maggior successo.
Ma rivela anche altre cose, come per esempio il fatto che dal vivo, anche nel periodo, il gruppo seguiva altre strade: a Top of the pops cantavano Gloria di Van Morrison, come facevano tutti in quel periodo, dai Doors a Shirley Bassey e come dicei anni più tardi avrebbe fatto anche Patti Smith.
Piacevole, complessivamente leggero, fresco, non necessario: spiega perché alla fine i 60 restano fra i nostri anni preferiti. Ci si poteva provare, divertendosi, e finendo pure per diventare famosi senza bisogno di incarognirsi troppo…