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Quarantadue – racconto inedito di Francesca Diano

Creato il 25 gennaio 2014 da Emilia48
Massimiliana Bettiol - Marina - olio su tela

Massimiliana Bettiol – Marina – olio su tela

Quarantadue

 

 <<L’ho conosciuta quella volta della gita al mare. L’unica gita al mare, perché a me piace la montagna. Le cime, l’aria pura, la forza delle rocce, le vallate e i boschi. Sì, insomma, guardare il paesaggio montano mi dà serenità. Il mare invece mi mette angoscia. Non tanto le spiagge l’estate, quando c’è molta gente, rumore e confusione. Proprio il mare in sé; tutta quella distesa senza confini, senza limiti o punti di riferimento. Non parliamo poi di salire su una barca… sapere che non posso poggiare i piedi per terra, che sotto di me c’è un abisso di cui non so la profondità… no no, per carità. Provo un senso di smarrimento.

Comunque, quella volta mi lasciai convincere e mi feci trascinare dagli amici.

“Ma dai, ci facciamo una mangiata di pesce fritto tutti insieme! Il solito musone. Dai!” mi aveva detto…. non ricordo chi me lo aveva detto. Insomma,  ci sono andato.

Ci siamo seduti tutti intorno al tavolo della trattoria che dava sulla spiaggia – era ancora semideserta, perché erano i primi di maggio – e abbiamo cominciato ad ordinare.

L’ho vista subito. È stato come un pugno nello stomaco. Quel viso dolce, quella figura aggraziata ma con le membra forti, i capelli raccolti in una coda di cavallo. Come negli anni ’50. Mi ricordava quell’attrice… quella di quei film in bianco e nero – ogni tanto li rifanno in TV –  come si chiamava? Marisa Allasio, mi pare. Mi è mancato il fiato.

Era venuta lei a raccogliere le ordinazioni. Poi ho saputo che era la figlia dei proprietari. In genere non sono un tipo di molte parole, ma fin dall’inizio, quando l’ho conosciuta, fu come se mi si fossero aperte delle dighe. Le ho chiesto consigli sul menù, le ho chiesto se il pesce era fresco, le ho chiesto il nome. “Marinella”,  mi ha detto. “Non è il diminutivo di Marina, è proprio Marinella, come quella della canzone di De André. Era la canzone preferita dei miei genitori.” Mi è parso subito un segno del destino, perché io vado pazzo per quella canzone. Ho tutti i cd di De André, ma quello con Marinella l’ho quasi consumato. Certe volte il destino lega i fili in modo bizzarro, ma ci manda segnali ingannevoli, che interpretiamo – ora mi rendo conto – in modo errato. Nel modo che in quel momento ci fa più comodo o ci piace di più. In quel momento mi sono chiesto se il mio timore del mare avesse un senso che non avevo previsto; se fosse perché proprio al mare avrei trovato l’amore vero, quello assoluto, quello che non ti crea dubbi o incertezze. E magari io in quel tipo di amore non ci credevo. O ne avevo paura. Così ho cominciato a scherzare su Marinella che vive al mare e mi sono sentito pure un coglione, perché lei, ridendo, mi ha detto che glielo dicevano tutti. E poi mi sentivo a disagio, perché avevo i capelli in disordine, la barba di un giorno e un paio di vecchi jeans fuori moda. Già, non l’inizio migliore.

Le ho lasciato una grossa mancia, proprio personalmente, oltre a quella che hanno lasciato tutti una volta pagato il conto. Non c’erano dubbi, che quello fosse un colpo di fulmine. Ero assolutamente certo che quella sarebbe stata la donna della mia vita.

 

Gli amici hanno cominciato a prendermi in giro, perché in genere faccio fatica a lasciarmi andare con una donna. Una volta era diverso, era tutto più facile ma poi, dopo l’esaurimento nervoso, mi sono sentito bloccato. Insicuro. Per cui, con Marinella, era come se mi fosse successo un miracolo. Fu uno strappo dovermene andare, quella volta. Così, la domenica seguente, ci tornai da solo. Io, da solo, al mare. Quasi non riuscivo a capacitarmene. Mi ero tagliato i capelli, rasato accuratamente e mi ero messo i Levi’s 501 nuovi con la Lacoste rosa.

C’erano più avventori della volta precedente, ma Marinella mi riconobbe subito. Mi fece un sorriso dolcissimo con quegli occhi verde scuro e io mi sentii sprofondare. Dovetti appoggiarmi al primo tavolo vicino. Però cercai di non farle capire cosa sentivo. Dopo gli spaghetti alle vongole e il fritto misto le chiesi se voleva uscire con me. Lei rise. Di sicuro non ero il primo che glielo chiedeva. E mi prese una gelosia rabbiosa, ma proprio rabbiosa all’idea che chiunque potesse vederla lì, come la vedevo io e potesse chiederle di uscire.

Ci tornai ancora, questa volta di venerdì, con un gran mazzo di gladioli. Le rose sono scontate e a lei non mi parevano adatte, anche per via di quello che dice la canzone. Ho pensato che non sarebbero state di buon auspicio. Marinella rimase sorpresa quando mi vide con quel gigantesco mazzo di fiori in mano. Divenne rossa come il sole al tramonto e ancora più bella. Però, finalmente, si convinse ad accettare un appuntamento.

Ecco, se si potesse pesare la felicità, io ne provavo quanta tutte le Dolomiti messe insieme. L’amavo disperatamente, con tutto me stesso. Anzi, io ero lei e lei era me, non c’erano più confini fra noi. Un’unica cosa. Fin da quel momento la sola idea di perderla mi divenne intollerabile. Sarebbe stato come perdere me stesso. Riprovare la caduta nell’abisso che avevo provato con la depressione, solo che questa volta avrei saputo quello che perdevo. E non l’avrei sopportato.

 

Marinella era felice. Certo che era felice. Mi diceva che non si era sentita mai così amata. E la sua felicità era la mia, perché mi faceva sentire qualcuno, mi faceva sentire importante.  Ormai andavo a trovarla tutti i giorni, le portavo fiori, dolci, regali, volevo che capisse quanto contava per me, perché mi aveva ridato la vita. Io senza di lei non esistevo. Quando non ero con lei le mandavo sms, mail, le telefonavo la mattina per darle il buongiorno e la sera tardi per darle la buonanotte. E durante la giornata, quando mi mancava l’aria senza di lei. Anche la voce mi bastava. Almeno per un po’.

 

Dopo tre mesi le proposi di sposarmi. Ma quello fu il primo segnale che qualcosa non andava. Lei mi disse che era meglio aspettare un po’, perché i suoi avevano ancora bisogno del suo aiuto in trattoria.  Che ci conoscevamo solo da poco e che era troppo presto per decidere un passo del genere. Non era la risposta che mi aspettavo. Eravamo innamorati. Anche lei mi mandava degli sms pieni di tenerezza, al telefono mi diceva che le mancavo.  Allora decisi di chiedere alla banca che mi trasferissero nella filiale del suo paese. Mi dissero che non avrei potuto mantenere la stessa mansione e lo stesso stipendio, ma a me andava bene anche così. Che m’importava perdere un po’ di euro pur di starle vicino? Mi sentivo un altro, come se fossi nato il giorno in cui l’avevo incontrata. Non ero più io, ma una sua creatura. E poi, se lei doveva lavorare e io fare ogni giorno 100 chilometri – 50 all’andata e 50 al ritorno – per raggiungerla, non restava molto tempo per stare insieme. Così mi trasferii. Mi accordai con un albergatore per una stanza con bagno su base mensile e intanto cominciai a guardarmi intorno per cercare una casetta da acquistare e in cui andare a vivere insieme. Marinella era raggiante quando le dissi che sarei andato a vivere vicino a lei. Mi buttò le braccia al collo, mi disse che almeno ci saremmo potuti vedere con più tranquillità, senza che le telefonassi continuamente.  Però non capii perché avesse detto così, come se le mie telefonate le dessero fastidio. Ma non poteva essere.

 

Durante la pausa pranzo andavo a mangiare nella sua trattoria e alle cinque, finito il lavoro, andavo a trovarla. Avevamo giusto un’ora prima del suo rientro per dare una mano in cucina. E la sera ancora cenavo da lei, poi uscivamo e andavamo a fare lunghe passeggiate, oppure da me. Pagavo, eh? Pagavo tutti i miei pranzi e le mie cene.

 

Non posso dire quello che provavo nel fare l’amore con lei. Era come se non l’avessi mai fatto prima, anche se l’emozione spesso mi giocava brutti scherzi. Lei mi rassicurava, mi diceva che non era niente, che a volte a un uomo innamorato può succedere. Questo discorso però non mi piaceva, perché lei come faceva a saperlo? Capivo che, a ventinove anni qualche esperienza doveva averla avuta, anche se solo il pensiero mi faceva stare male, ma come mai parlava da donna esperta? Le chiesi quanti uomini avesse avuto e lei mi disse due. Ma io non le credevo. Ero certo che non volesse dirmi tutta la verità. Seguitavo a chiederglielo e lei mi rispondeva che non capiva perché mai non dovessi crederle, che non aveva motivo di mentire. E io le dicevo che, se davvero mi amava, doveva fidarsi di me. Come io mi fidavo di lei. Doveva dirmi la verità. Glielo ripetevo tutti i giorni. Ma il tarlo mi rimaneva. Mi è rimasto anche adesso.

Appena avevamo un momento libero giravamo per agenzie e andavamo a vedere degli appartamenti e Marinella era entusiasta. Alla fine trovammo proprio quello che lei voleva; tre camere e doppi servizi con una grande terrazza sul mare. Io ero pronto a firmare il compromesso e dare la caparra. Fra il mio lavoro e il suo la banca non ci faceva problema col mutuo. Solo che lei… ecco, lei… si tirò indietro. Disse di nuovo che era ancora presto! Ma come presto? Quattro mesi! Ormai erano passati quattro mesi da quella sera… io l’amavo follemente, avevamo fatto tanti progetti per il futuro, mi ero addirittura trasferito, ci avevo rimesso anche nella carriera e nel portafoglio e lei mi veniva a dire che era presto! Ma allora non era vero che mi amava; il suo non era un amore vero come il mio. Cosa poteva volere di più?  Glielo dicevo: cosa vuoi di più? Che altre prove vuoi del mio amore?  E allora lei mi disse una cosa che mi aprì una voragine sotto i piedi; mi disse che voleva essere sicura di quello che provava, perché il matrimonio è un passo importante e non si può decidere su due piedi! Su due piedi? Ma erano già quattro mesi! Io sapevo che se non l’avessi sposata subito me l’avrebbero portata via. Di che sicurezza parlava? Non era già abbastanza quello che le dimostravo? Fu la prima volta che litigammo, perché io fui preso dal panico. Quando mi disse così mi si annebbiò perfino la vista e mi mancò l’aria. Proprio in senso letterale. Era chiaro che si stava tirando indietro. E infatti mi chiese di darle del tempo per capire. Mi disse che si sentiva oppressa dalle mie visite, dalle mie telefonate, dai miei sms…. Oppressa! Cioè voleva che per un po’ ci vedessimo di meno!

 

Quando mi disse queste cose terribili fui accecato dalla rabbia e le detti uno schiaffo… sì, lo so, non dovevo farlo, mi lasciai prendere dal panico, dalla paura… però…. l’amavo. Oddio se l’amavo! Dopo quello lei mi disse che le facevo paura. Paura io? Ma io l’amavo, l’amavo così tanto!

 

Così ho cominciato a seguirla, a sorvegliarla, perché veramente a quel punto non mi fidavo più. Ero terrorizzato all’idea che forse tutto quello che era successo mi rivelava una parte di lei che mi destabilizzava. Avevo creduto che fosse la mia roccia e invece era instabile e infida come il mare. E capii che mi ero lasciato ingannare. Che non era come aveva voluto farmi credere. Ed era colpa sua se stavo così. Magari si vedeva con qualcun altro e non voleva dirmelo. Io non vivevo più, non mangiavo, non dormivo più e anche al lavoro rendevo poco. E mi montava una rabbia, un risentimento contro di lei, perché mi aveva ingannato, mi aveva fatto credere di amarmi…>>

 

<<Senta, signor Foschi, io l’ho lasciata raccontare senza interromperla. I miei uomini l’hanno trovata sulla spiaggia che si aggirava apparentemente in stato confusionale, ma la prima cosa che ha detto quando le hanno chiesto le generalità è stato: non l’ho uccisa io.>>

<<Può essere, non ricordo bene. L’amavo.>>

<<Lei parla d’amore, ma lei l’ha uccisa questa ragazza.>>

<<Signor commissario, o signora commissario – non so come ci si debba rivolgere a una donna commissario – non ricordo bene cosa sia successo, sono molto confuso… sì, l’amavo. Ma la odiavo anche.>>

<<Commissario va bene. Glielo posso ricordare io cosa è successo. La signorina aveva sporto denuncia contro di lei per atti persecutori. Quelli comunemente noti come stalking. Era stata emessa un’ordinanza restrittiva che le vietava di avvicinarla, di telefonarle o mandarle messaggi o comunque di mettersi in contatto con lei in qualunque modo. E lei invece ha continuato per oltre un anno a seguirla, a importunarla, a perseguitarla. Per un anno, senza interruzione.>>

La voce del commissario era severa, non lasciava spazio a giri di parole. Era una donna diretta. E tenace.

Negli ultimi tempi il numero delle violenze e degli omicidi era cresciuto in modo esponenziale. Aveva esposto le statistiche dell’orrore anche a un convegno sul femminicidio cui l’avevano chiamata a  partecipare.  I numeri erano allarmanti. Si sentiva stanca e impotente. Quando sarebbe finita? Cosa faceva scattare la molla mortale nella testa di uomini apparentemente normali? L’uomo che aveva davanti era un impiegato di banca, aveva amici, un passato senza precedenti. Un uomo qualunque. Eppure aveva massacrato la donna che diceva di amare.

Quello che le faceva più rabbia, che trovava intollerabile e che l’addolorava, era la motivazione che i violenti e gli assassini portavano a loro discolpa: l’amavo, non potevo perderla.

Ma potevano ucciderla.

<<Lei parla come se l’amore contenesse in sé la morte. Non ha la più pallida idea di cosa sia l’amore. Quello che lei descrive è un amore deviato. Anzi, una deviazione del peggio che la natura umana ha in sé.>>

<<Sì che lo so cos’è l’amore!>> Parlava con gli occhi dilatati. Con tutto quello che le aveva raccontato, come poteva non capire ciò che Marinella aveva significato per lui? <<Senza di lei non ero nulla. E come ha potuto rifiutare il mio amore? Non potevo perdonarla.>>

<<Perdonarla? Di cosa? Io penso>>, disse il commissario, <<che quello che lei definisce amore sia solo una forma di inadeguatezza, il senso di inferiorità, di fallimento che uomini come lei si trascinano dietro e che proiettano all’esterno, sulla persona che in qualche modo e senza saperlo lo fa riaffiorare con un rifiuto. Pensano che, eliminando lei, riusciranno a sradicare da se stessi l’inferno che hanno dentro.>>

<<Ma lei aveva cambiato numero di telefono! Non riuscivo a parlarle, a spiegarle!>>

<<Ma lei non doveva e basta! Ma ha capito quello che le ho detto? Mi ascolta?>> Non doveva perdere a pazienza. <<La signorina si era rivolta a noi ancora due volte. Era spaventata, esasperata e siamo venuti a diffidarla nuovamente. Avrei potuto trarla in arresto, ma sapevo che se la sarebbe cavata con la condizionale e ho sperato che sarebbero bastate le diffide. Lei ha perso anche il lavoro per questo.>> La voce del commissario ora era pacata. Voleva capire il meccanismo. Cosa poteva spingere una persona a riporre totalmente le proprie speranze in un’altra e poi, se le cose non andavano come lo si programmava… ma certo!

Era quella la risposta? Un programma rigido, uno schema fisso che chiude la mente in una morsa e inibisce ogni capacità di adattamento alla realtà dell’altro. Ogni empatia.

<<Lo so…>>

<<Perché l’ha uccisa?>> gli chiese quasi sottovoce.

<<L’amavo. Non potevo perderla. Era la mia vita>>, le rispose sopratono.

<<Ma lei è stato la sua morte. L’ha aspettata all’uscita sul retro della trattoria, l’ha convinta a seguirla –a suo dire per parlare – e la signorina purtroppo lo ha fatto. Come è riuscito a convincerla? Sapeva già che l’avrebbe uccisa, perché aveva con sé un coltello.>>

<<Sì, è vero, l’avevo portato, ma non lo avrei mai usato se lei mi avesse dato anche solo una speranza che saremmo potuti tornare insieme, che mi amava ancora. Invece si è messa a discutere, mi ha detto che dovevo lasciarla in pace, che non voleva più saperne di me, che le facevo paura. Ecco, è stata questa parola: paura. Ho sentito di non avere più futuro. Ho  perso la testa.>>

<<E ha tirato fuori il coltello e l’ha pugnalata. Quarantadue volte… quarantadue volte! Ma cosa ha fatto almeno lo ha capito? Ha tolto la vita a una persona! Una persona che non avrà più alcun futuro, grazie a lei.>>

<<L’amavo. Non volevo che finisse così. Ma non potevo lasciarla vivere dopo tutto quello che mi ha fatto. Doveva pagare.>>

Non poteva più ascoltare. Non voleva. Ebbe paura. Perché quelle spalle cadenti, quella testa piegata, quelle mani che si torcevano in un nodo cominciavano a ispirarle una compassione che non voleva provare. Era come un ultimo insulto alla vita che non c’era più.

L’uomo fissava il vuoto. <<Doveva pagare…>> ripeté.

Il commissario si alzò. Chiamò l’ispettore. <<Portatelo via>>, disse stancamente.

 

(C) 2014 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA



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