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Quei film che "minchia quanto sono profondo"

Da Anacronista
Non è che se nei film ostentiamo depressione siamo per forza profondi, eh.
Molti film italiani* hanno questo approccio della recitazione recitata del dolore lacrimestrappa. Gli attori sono molto accigliati, didascalicamente pensierosi, sempre  dolorosamente conturbati nella turba postesistenziale e relazionale fatta a tavolino. Fanno la caricatura atteggiata della depressione, ed è come se a un certo punto apparisse sullo schermo una didascalia tutta fluorescente:
"Ecco, vedi, io mi sto struggendo. Mi sto molto struggendo baby, guarda che faccia addolorata che ho. Vedi, c'è che se hai questa faccia sei uno profondo, uno esistenziale. Non come i bimbiminkia,  non come i piccoloborghesi tutti integrati e cerebrolesi: io sto dalla parte della kultura che c'ha il male di vivere. No, cccioè".
E la struttura narrativa coincide tout court con questo mimare inesausto la depressione. Banale fino alla masturbazione.La scritta fluorescente che abbiamo immaginato sembra dunque dirlo chiaro:
"Io film profondo, tu cinepanettone".Voglio spararla grossa: forse sono addirittura meglio i cinepanettoni, che almeno lo dicono sin dall'inizio che è tutto uno scherzo, senza spacciare il loro cattivo gusto per qualcos'altro. "Vedrete delle scemenze", punto, uno almeno lo mette in chiaro fin dall'inizio. Questa sfacciata nullità è perfino preferibile alla fintoprofondità della fintodepressione coatta, secondo me.
Sì, insomma, il "profondo" (leggi: la caricatura della profondità) fa fico. Ai festival dà un sacco di credibilità. Sembra che si intenda soddisfare un bisogno (non primario) del target, cioè il bisogno di sentirsi "dalla parte dei profondi" di certo pubblico - di cui, detto en passant, spero di non fare mai parte; ma sai mai, di questi tempi, in che target vai a finire. E che quindi il nocciolo di tutta l'operazione consista nel compiacere quell'aspettativa - il film, come dire, non si giustifica da sé.Non mi riferisco soltanto alla recitazione, agli attori, parlo di tutto il complesso. La sceneggiatura, la regia, tutto. Non saprei dire se sin dall'inizio - sin dal soggetto - l'idea stessa sia inequivocabilmente balorda. Non lo so, ma è certo che a film realizzato qualcuno vuole prendermi in giro. Sì, mi sento presa in giro dalla drammatizzazione della pseudoprofondità: è disonesto

Ora, la mia domanda è solo questa: perché tanti, così tanti film, hanno bisogno di cadere nell'atteggiamento?

L'atteggiamento è intrinsecamente barocco ma prima di tutto didascalico, ti spiega cioè se stesso senza che tu glielo abbia chiesto. L'emozione appositamente rappresentata diventa allora emozione atteggiata, non-emozione. Non dolore, ma caricatura del dolore. Non gioia, ma caricatura della gioia.
Detesto che mi si prescriva la reazione, quando guardo un film (o leggo un libro, o parlo con una persona, ecc.).

Poi torni a casa col pensiero che "l'ha detto:  ha precisamente detto che lo ha detto", non con il pensiero del film, dell'emozione, della storia in sé e tutto quel che veramente dovrebbe giustificare l'esistenza stessa del film.
E le recensioni, poi, fanno quasi tenerezza: i pubblicisti vanno profondamente a caccia dell'aggettivo più profondo per sprofondare tutti insieme nella profondamente approfondita profondità del regista e del pubblicista, che da un certo momento in poi, non si sa come, quasi diventano una cosa sola.

Che poi, a pensarci, vale lo stesso per le persone. Quando ogni parola trasuda il concetto che

"ecco, vedi, io ho queste, precisamente queste caratteristiche". Uguale uguale.
Questa cosa in realtà c'è ovunque mettano piede degli esseri umani. Soprattutto negli ambienti come dire molto "di cultura", nel senso spregiativo del termine. Film e persone, ma anche libri, ambienti professionali, ambienti amicali, eccetera. C'è una specie di ansia di di definizione pubblica dei propri contorni identitari, una specie di metaidentità (è: l'identità dell'identità!), che per carità io capisco, ha i suoi motivi e non la discuto qui. Ma siamo sempre in qualche modo all'ansia da prestazione sociale, nella quale non intendo essere coinvolta pagando addirittura un biglietto.
Quello che voglio dire è che i film artificiosamente tristi, il cui unico vero contenuto è il fatto stesso che ti dicano che il loro contenuto è appunto questa tristezza, sono superficiali
C'era Stanislavskij, me lo diceva sempre il vecchio prof, che stava sul loggione a guardare i suoi attori recitare. Quando si atteggiavano, quando fingevano, urlava:
"Non ci credo!"

La recitazione falsa è un ossimoro, checché ne sembri.
Pensa a quello che hai da dire (=essere), non pensare che lo stai dicendo. 
Capisco che non è facile. Ma come dire, l'arte non è facile per definizione - intendo, il cosiddetto processo creativo, la "parte ex ante". L'equilibrio è molto delicato. E' appunto questa la sfida...
Vabè insomma, diglielo tu, André:
"In questo mondo è importante non avere l'aria di quel che si è." (A. Gide)
*Prendi per esempio un Ozpetek. All'epoca andai a vedere Saturno contro piena di aspettative: subito dopo il film ero già alla ricerca del primo ponte per farla finita per sempre. E mi spiace dirlo, ma vale lo stesso per Mine vaganti, che mi sono iniettata in vena un pomeriggio d'autunno (che più che un pomeriggio d'autunno sembrava una zappata sui piedi). Non mi ha trasmesso nulla, solo il fatto che voleva trasmettermi la complicatezza complicata e ostentatamente pseudoprofonda delle relazioni. (Non ce l'ho con Ferzan, ce l'ho con l'idea).

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