Magazine Cultura

Quel bar così lontano

Creato il 14 dicembre 2012 da Albix

Quel bar così lontanoQuelli come me, ex ragazzi amanti del rock psichedelico e progressivo, soprattutto se non di madre lingua inglese, si  sono   abituati , ascoltando la loro musica preferita, a sognare sulle ali della melodia, ora inseguendo le note della chitarra (quando prevalente, come nel caso di Jimi Hendrix), ora viaggiando dietro ai suoni più rotondi ricavati dai tasti del pianoforte e dell’organo.

Emblematico di questi ultimi strumenti  è sicuramente il “sound” dei Procol Harum.

Ho sognato sulla musica di “A whiter shade of pale” e di “Homburg”, due dei più grandi successi del genere, sin da quando avevo appena smesso i calzoni corti. Ricordo   un fumoso bar di periferia, dove due precari ante litteram si disputavano, forse a sua stessa  insaputa, le grazie di una delle giovani e graziose  figlie del titolare che servivano ai tavoli, sfidandosi in epici duelli di lotta “a is trumpasa”al ponte del Rio Mannu, dove si recavano alla chiusura del bar, seguiti come in una processione da tutti gli avventori, testimoni e pubblico di quella sfida dall’incerto palio, i cui contorni apparivano deformati dal vino e dalla birra. In quel bar, dicevo, c’era un juke-box, e con una moneta da 100 lire giovani malinconici con la pelle cotta  dal sole, con le dita tozze screpolate dalla calce e dai manici delle zappe con cui si guadagnavano il pane quotidiano, selezionavano brani struggenti, al cui ascolto si abbondanavano pensando a un ex- fidanzata, ormai da riconquistare, oppure all’amata già rientrata a casa, cercando di raggiungerla almeno col pensiero, nella speranza prossima del tanto agognato matrimonio, in attesa della casa e del corredo da portare a compimento.

“A chi” di Fausto Leali; “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli,  “Ho scritto t’amo sulla sabbia” di Franco I e Franco VI erano i pezzi italiani  più gettonati; tra gli stranieri, oltre a San Francisco dei Bee Gees e “Cuando calienta el sol” forse del los Marcelos Feriales c’erano appunto “A whiter shade of pale” e “Homburg” dei Procol Harum, disponibili anche nelle versioni italiane dei Dik-Dik e dei Camaleonti con i titoli “Senza luce” e “L’ora dell’amore”.

Poi li ho ballati come lenti, nei vari clubs di paese dove allora si suonava dal vivo (le discoteche erano ancora di là da venire), sussurrando all’orecchio della dama d’occasione, che si invitava tra le tante ragazze in attesa ai lati della sala,  frasi gentili che volevano conquistare ma che erano anche un modo come un altro per rompere il ghiaccio e fare amicizia con la sconosciuta ballerina.

Quelle canzoni, che i ragazzi più grandi solevano definire “lentacci” (qualcuno con accento boccaccesco aggiungeva “ideali per fare pesce”), creavano un’atmosfera unica, che conciliava quell’unione misteriosa, quell’attrazione istintiva, che pur nell’improvvisazione del contatto fisico, costituiva quel valore aggiunto che poteva fare la differenza e dare un senso alla serata.

Al riascoltarle oggi, quelle canzoni, mi è venuta la voglia di capire meglio il senso di quelle parole, il cui significato  intuivo soltanto a spezzoni, nella convinzione che la traduzione in italiano, nonostante la bravura di Mogol e Pace, non dovesse corrispondere al testo originale.

Intanto conviene dire che il meritato successo dei due brani, al di là della bravura del pianista, compositore e cantante  dei Procol Harum,  Gary Brooker, peraltro ispiratosi apertamente al J.S. Bach (soprattutto nel comporre 2A whiter shade of pale”), va ascritto anche alle liriche del paroliere (lyricist in inglese) Keith Reid.

Contrariamente a quanto ci accade di scoprire traducendo brani famosi di musica rock dall’inglese all’italiano, qui non ci troviamo di fronte a dei testi banali e privi di senso (anche se spesso essi sono criptici perché celano un simbolismo di iniziazione psichedelica: si pensi all’Eletric LadyLand di Hendrix; ai vari friends e  men che indicano genericamente la “roba”(the stuff, o “a thing” come cantavano i Beatles in “Has been a hard day” o il “pusher” che la rifornisce), oppure a   mother mary, brown sugar, charlie che indicano specificamente il fumo, l’eroina e la cocaina; i testi di Keith Reid hanno un fascino particolare che inseriscono a pieno titolo questi brani nel filone poetico surreale e impressionistico (anche se a mio modesto parere, raramente anche i migliori testi delle più belle canzoni si reggono da soli, autonomamente dalla musica che li sorregge; ma questo è già un altro discorso).

Lo stesso titolo di “A whiter shade of pale” (intraducibile in italiano) è di per sè un piccolo capolavoro letterario, una locuzione cinematografica, un’immagine ricca di significato che l’ha fatta diventare idiomatica ed emblematica di una certa cultura, vera icona artistica e  letteraria della lingua inglese contemporanea.

Molto suggestive anche  altre frasi immaginifiche del primo dei due testi: dall’iniziale ” skipping” di una danza spagnola, ai soffitti che liberano la mente, spostandosi al seguito di pareti a specchio, passando per le sedici vergini, vestali in cerca di mitici approdi e per finire ai misteriosi “Queen of laughters” e Nettuno, delle due ultime strofe che la band inseriva soltanto nei concerti dal vivo, essendo assenti nella registrazione in studio del 1967 che ha venduto sedici milioni di copie in tutto il mondo, creando, da sola, un profitto di milioni e milioni di sterline, il cui 50%   Gary Brook ha dovuto dividere con Matthew Miller, l’organista della registrazione in studio che, dopo 40 anni, ha avuto ragione in un tribunale inglese, dove avanzava diritti di compositore legati al suo apporto fondamentale nell’arrangiamento della parte dell’organo (Brook suonava soltanto il piano). Ma il 50% di Keith Reid, quello non l’ha potuto toccare nessuno; è rimasto tutto suo.

http://www.youtube.com/watch?v=Ma4dsoviNSQ


A Whiter Shade of Pale (Brooker / Reid)*

We skipped the light fandango
turned cartwheels ‘cross the floor
I was feeling kinda seasick
but the crowd called out for more
The room was humming harder
as the ceiling flew away
When we called out for another drink
the waiter brought a tray

And so it was that later
as the miller told his tale
that her face, at first just ghostly,
turned a whiter shade of pale

She said, ‘There is no reason
and the truth is plain to see.’
But I wandered through my playing cards
and would not let her be
one of sixteen vestal virgins
who were leaving for the coast
and although my eyes were open
they might have just as well’ve been closed

She said, ‘I’m home on shore leave,’
though in truth we were at sea
so I took her by the looking glass
and forced her to agree
saying, ‘You must be the mermaid
who took Neptune for a ride.’
But she smiled at me so sadly
that my anger straightway died

If music be the food of love
then laughter is its queen
and likewise if behind is in front
then dirt in truth is clean
My mouth by then like cardboard
seemed to slip straight through my head
So we crash-dived straightway quickly
and attacked the ocean bed.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :