Il mondo che non c’è (… e forse non c’è stato mai). Salvatore Salvatore, Figli dell’allodola, con una Presentazione di Francesco D’Episcopo e le illustrazioni di Giovanni Spiniello, Grottaminarda (AV), Delta 3 Edizioni, 2010
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di Giuseppe Panella*
Il Sud è sempre quello di un tempo oppure è cambiato in maniera irreversibile? E’ la domanda che il poeta irpino si pone in prima istanza e per rispondere alla quale si mostra subito intento a rammemorare, calmo e quasi assopito in un disegno di oniria lirica, un tempo che forse non c’è mai stato e che oggi non è più presente se non nei ricordi di una gioventù trascorsa.
Scrive Francesco D’Episcopo nella sua Presentazione (La foresta felice) al volume di poesie di Salvatore:
«Tocca, questa volta, a Salvatore Salvatore (per far rima: non è un errore) raccontare, nei suoi versi solari e lunari, ciò che siamo stati e siamo: incantati pellegrini dell’infinito in quella foresta felice, che resta il nostro Sud, la nostra terra “impareggiabile”, per evocare Quasimodo, nella quale siamo nati e, nonostante forti tentazioni, abbiamo scelto di restare. Se fossimo andati via avremmo tradito il nostro sangue. Abbiamo preferito, cristianamente, essere traditi, talvolta, dalla nostra gente, alla quale abbiamo dato tutto, piuttosto che violare un patto di giusta alleanza con la storia e la vita. Nelle parole del nostro cantore, radicato nell’Irpinia e nella sua Carife, risuonano, come in un album di ricordi, rimessato in una moviola, i silenzi dignitosi e le fatiche quotidianamente eroiche di gente, di congiunti, votati alla terra, alla famiglia, a una società, si potrebbe dire, naturale, non artificiale, come quella che abbiamo abilmente edificato» (pp. 3-4).
A prescindere dai tradimenti passati e presenti commessi non si sa bene da chi e dall’esilio del tempo passato, la poesia di Salvatore nasce come riflessione sul trascorrere di un Tempo eterno e collegato all’immutabile ciclo delle stagioni e dei suoi lavori specifici e non evitabili (le opere e i giorni da sempre, da Esiodo in poi, scandiscono i momenti di una civiltà contadina trasmigrati e trasformati, ma mai obliati ed eludibili):
«Padre. Padre, / da bambino non compresi / il tuo canto di gioia per la mietitura / e non mi accorsi / della tua lotta tenace con la terra! / Quando ti osservavo, furtivo, dalla siepe, / mentre asciugavi il sudore, / ti immaginai triste. / Non vedevo / i tuoi sguardi d’amore per il grano, / la tua ansia per gli ulivi in fiore. / Tu eri uomo antico / impastato come il pane; / ti bastava l’alito caldo di aprile / per essere allegro. / Il tuo profumo era di erba e di pioggia / e la tua festa odorava d’incenso. / Quando ti guardo, assopito, / sulla sedia di paglia, non mi do pace / per averti creduto triste, / per aver confuso il tuo cuore / con il mio» (p. 27).
Il taglio e il tono sono (quasi naturalmente) un omaggio al Quasimodo più intimo e più disteso nella scrittura ma le situazioni sono robustamente realistiche e l’evocazione del faticoso epperò quasi entusiasmante lavoro dei campi (la soluzione ai problemi della sopravvivenza che si fa ragione di vita e sollievo del cuore) e la messa in valore della figura del padre non è di maniera o puramente agiografica. Allo stesso modo, la rievocazione della terra avita si condensa in un grumo di parole dolci e sentite come un pianto antico, come un rimorso a lungo rigirato nell’animo:
«Paese mio. E’ antica la schiena d’argilla / che spandi sui colli, / paese mio. / Le tue vene sono viottoli d’erbe / e le tue rughe sono tetti. / Lo sanno le rondini, / che ti portano al di là del mare; / lo sanno i tuoi figli…, / a cui sfuggi dagli occhi, / come acqua di torrente» (p. 45).
Il luogo è noto, eppure rivive e rifiorisce in parole fatte di pietre e di sogni; il paese antico si rinnova nella lingua asciutta e solida del poeta che si congiunge alle sue “vene” e alle sue “rughe” per trasformarlo in un luogo se4mpre uguale, sempre presente, sempre inconfondibilmente felice.
E lo stesso avviene per gli altri “posti delle fragole”di cui Salvatore dissemina i suoi componimenti poetici, fatti di frantumi di ricordi e di brandelli della realtà odierna (penosa e spesso insoddisfatta effigie che riproduce l’altra ma senza poterla paragonare ad essa, come quella delle balze del monte Formicoso trasformata in discarica generale o dei paesi venuti su come funghi, ma senz’anima e senza vita spirituale, come conseguenza dello sradicamento culturale successivo al terremoto del 1980):
«Dopo-terremoto. Sono senza disegno / i voli nuovi della primavera ! / e di dolore i canti, / sulle case dagli embrici rossi / dei Fossi. / Le rondini, / mie nude compagne di viaggio, / cercano, invano, il loro tetto nel sole, / la gronda, le viole. / Non ha riposo il loro volo, non ha sera… / Non c’è vento nell’aria di aprile, / non giochi di bimbi / né rumori di passi, / per i vicoli ingombri di sassi. / Finestre vuote ora s’aprono al cielo. / Il sole s’annoia, / tra pareti senza porte, senza segreti. / Di notte, verrà ancora la luna / a rischiarare le case dei Fossi, / che, da novembre, sono gravide d’erba / e di papaveri rossi» (p. 35).
Il mondo è cambiato (non solo da quel giorno) e le opere non sono più susseguite ai giorni ma tutto sembra essersi fermato in attesa del ritorno del tempo passato. Ma quel passato c’è mai stato davvero? Questo non importa più saperlo oggi – quello che conta è vederlo con gli occhi della poesia, descriverlo, ricordarlo come se fosse davvero stato così. Le parole scandite come pietre e come pilastri di sogni nell’epica rammemorativa di Salvatore inducono alla visione di ciò che è stato come se il tempo di ieri fosse stato davvero così come viene parlato dalla poesia e allora il resto importa davvero poco. La luna che illumina le macerie del post-terremoto e il sole che fa capolino nelle occhiaie vuote delle case dirupate sono vere perché il suo cantore le ha volute descrivere e vedere così.
Nella poesia di Salvatore, il tempo del passato e quello del presente si annodano indistricabilmente in un susseguirsi di evocazioni fatte di nostalgia e di dolore, di ripensamenti e di allegrezze ripensate dopo l’evento gioioso, come quando il ricordo di ciò che è stato bello riaffiora all’improvviso e si palesa come una possibilità del tutto inevasa, fino ad allora imprevista e forse imprevedibile.
In questo congiungersi di amarezze e di felicità postume consiste esattamente l’aspro rigore della sua poesia.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)