Aforismi per tutto quello che resta. Alberto Casiraghy, Gli occhi non sanno tacere. Aforismi per vivere meglio, con un testo di Sebastiano Vassalli, Novara, Interlinea, 2010
_____________________________
di Giuseppe Panella*
Alberto Casiraghi (che preferisce, però, la più esotica versione Casiraghy) non scrive poesia (anche se ne pubblica parecchia e di altissima qualità nelle sue ormai mitiche Edizioni PulcinoElefante). I suoi “aforismi per vivere meglio”, tuttavia, ricordano la poesia più di quanto degli aforismi tradizionali dovrebbero fare. Essi, infatti, sono intrisi della “sostanza di cui sono fatti” i versi proprio perché la loro scansione lirica non ha nessuna funzione analitica o “didattica” come, invece, gli aforismi filosofici o politici (o scientifici – come insegna la storia della scienza stessa) avrebbero da dichiarare. Casiraghy preferisce stupire o illuminare o almeno inquietare i suoi lettori piuttosto che insegnare qualcosa. Preferisce mostrare tutto e dare da conoscere tutto quello che pensa o in cui crede. Scrive Sebastiano Vassalli nella sua Presentazione al libro:
«I suoi aforismi si muovono in un territorio intermedio tra quello della poesia e quello della filosofia. Non appartengono al genere sapienziale; non aspirano a insegnarci niente, o quasi niente, e non hanno nemmeno lo scopo di corrodere, con la satira, i luoghi comuni annidati nel nostro cervello e nelle nostre abitudini. Sono aforismi esplorativi: ragionamenti che si protendono nella realtà in cui viviamo come le antenne delle chiocciole, e che ci aiutano a vedere in quella realtà qualche significato nascosto. Qualche idea che ci tornerà utile per vivere. Sono pensieri che si affacciano, e si sporgono, dal balcone stretto della ragione. Sono occhi che scrutano nel buio, e che “non sanno tacere”. Infine, per concludere: sono i viaggi da fermo e le avventure di quel cosmonauta immobile che è, a Osnago in Brianza, Alberto Casiraghy. Una leggenda» (p. 9).
In realtà, Casiraghy nasce tipografo “di stirpe aldina” (avrebbe potuto scrivere un secolo fa Gabriele D’Annunzio) e soltanto dopo, nel 1985, grazie a due macchine tipografiche acquistate a prezzo di liquidazione dalla Same, la grande tipografia per i giornali del Nord in cui lavorava, diventa l’editore della PulcinoElefante che pubblicherà tanti autori divenuti ormai “di culto” (soprattutto Alda Merini, ad esempio, ma anche Elio Pagliarani e Arturo Schwarz) o che erano già dei classici (Samuel Beckett, Ezra Pound) con le illustrazioni di tanti pittori anch’essi di rilievo (Emilio Tadini, Enrico Baj, Mimmo Paladino, Bruno Munari – solo per citarne alcuni tra i più famosi).
I suoi aforismi, allora, fanno parte del suo tentativo di spiegare perché alcuni avvenimenti possono produrre in noi dei mutamenti anche profondi senza che siano di rilevanza tale da farcene accorgere a prima vista. Ma questo suo progetto non si basa sulla fiducia in una ragione assoluta o totalizzatrice quanto nel potere (esile e potente insieme) dell’accostamento delle parole in una dimensione apparentemente dislocata, un po’ sghemba e trasversale rispetto al loro uso tradizionale.
Qualche esempio anche se casuale sarà necessario e – si spera – illuminante:
«Nei sogni delle lepri / i cacciatori sono senza mani» (p. 49).
E come poi potrebbe essere diversamente? Altrimenti non sarebbero sogni ma solo rappresentazioni inutili di un presente che non si può modificare…
«I ragni sono i veri / professionisti delle attese» (p. 50).
Senza di questa loro capacità infinita e assoluta non riuscirebbero a sopravvivere all’implacabile marcia del tempo…
«Le grandi verità / non conosceranno mai / le gioie dell’adrenalina / della menzogna» (p. 25).
Anche perché senza di essa (la menzogna) la verità non avrebbe ragion d’essere e nessuno la considererebbe come tale ma solo come la perfetta normalità del vivere associato…
«Quando si pensa di sapere tutto / non resta che pregare» (p. 73).
Infatti, la presunzione di avere tutto il sapere a portata di mano, di averlo sottomesso a sé e di tenerlo a portata di mano, conduce verso la catastrofe e lo strazio infinito della delusione… meglio pensare di non sapere nulla e pregare di azzeccare la soluzione di quel gioco gigantesco a premi che è la vita…
«Lasciarsi guardare dallo specchio / è il modo migliore di riflettere» (p. 57)
che fa il paio con “Gli specchi dovrebbero riflettere un momento prima di rimandarci l’immagine” – come ammette Jean Cocteau in Il testamento di Orfeo o non domandatemi perché ! del 1960 et pour cause. Ma se lo specchio ci rimanda un’immagine sbagliata o perversa di noi stessi, certo non è colpa sua ma nostra…
«Nei segreti del corpo / c’è sempre un posto / dove nascondere qualche felicità» (p. 18).
Il che costituisce una consolazione superiore e bruciante rispetto alla paura che in essi si nasconda la ragione profonda della nostra infelicità – essere brutti o malati o stanchi non dovrebbe, infatti, negarci il diritto alla felicità…
«Non ho mai perplessità / a lunga scadenza» (p. 30).
Dato che se lo fossero, non sarebbero certo delle perplessità ma certezze e non potrebbero più durare a lungo…
«Chi scrive molto non conosce / la bellezza delle pagine bianche » (p. 36).
Ma chi scrive troppo poco non saprà mai cosa significa vivere nel paradiso dei libri dove la pagine composte e fitte di caratteri danzano la loro volontà di resistere e durare nel tempo…
«Scrivo aforismi perché / sono piccole luci / che attraversano gli occhi» (p. 36).
E, nello stesso tempo, fanno udire la voce della mente imponendo e provocando il trionfo della tentazione di pensare e, insieme, di sognare…
«Gli aforismi migliori sono quelli / che non si fanno capire? » (p. 74).
O è vero tutto il contrario? I migliori aforismi sono forse quelli che tutti riescono a capire? Perché se non si capiscono e non comunicano con chi li legge, chi li scrive perché lo fa?
E così si potrebbe continuare fino a commentare tutto il libro fino alla fine.
Ma quello che conta nella scrittura di Casiraghy non sono tanto le “perle di saggezza” sparse in esso quanto il potere luminoso e seducente di stupire, di attrarre, di colpire mente e cuore. Se “gli occhi non sanno tacere” non sa farlo neppure quel sentimento intermedio tra ragione e sentimento che rappresenta l’intuizione profonda della bellezza della realtà in cui se si riesce a vivere da uomini liberi e capaci di dimostrarlo vivendo sempre senza paura di esserlo diventa davvero “un mondo meraviglioso” in cui tutto vale la pena che sia.
___________________________
*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)