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Quello che il renzismo non dice (23): Se un Gramsci datato supera in curva la diatriba renziani-DEM “iscritti” vs “elettori”. Sui fischi a Ferrara e sui ghost-writers di Renzi.

Creato il 04 ottobre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
640px-Alastair_Campbell_-_Chatham_House_2012_cropdi Rina Brundu. A proposito di cosa fosse il PCI, cosa fosse la sua “base” e quali elementi la rendessero tale, ne scrive Antonio Gramsci nel suo “Per la verità” (1925): “La concezione, secondo cui la base del partito comunista deve essere costituita da tutti coloro che sono d’accordo sul programma, è insufficiente. Il partito comunista è l’avanguardia della classe proletaria, la sua base perciò deve essere proletaria. Ciò è necessario perché nei momenti decisivi dell’azione rivoluzionaria, quando ogni strato sociale sotto la spinta immediata delle proprie particolare aspirazioni è portato ad assumere una propria posizione, solo il proletariato è capace di andare fino in fondo, fino alle ultime conseguenze della lotta rivoluzionaria. Allora la compattezza, la fermezza, la decisione del partito, lo svilupparsi degli avvenimenti ed esse hanno un peso immenso nel succedersi e sono impossibili se il partito non poggiasse su una salda base proletaria decisa a tutto”.

 

Ad una prima lettura si scopre dunque un Gramsci renziano: un Gramsci che forse direbbe a Bersani e ai DEM che gli “iscritti” non fanno equazione con la base del Partito. Che il Partito esisterebbe anche senza questa “base” pura, ideale e idealizzata e che la stessa base, semmai, si identifica soprattutto con la sua “classe” di riferimento, il proletariato (che, volendo, potrebbe fare equazione, in termini moderni, con gli elettori). Qui però Gramsci supera in curva anche il renzismo che la parola “proletario” non la inserisce neppure nelle dispense settimanali del suo dizionario bignami. Gramsci confida nella determinazione della sua “classe” di riferimento che diviene il motore pulsante del Partito e dunque lo fa vivere, gli dà una ragione d’essere, la giustifica. Rapportando il tutto ai giorni nostri sarebbe un poco come dire che Renzi confida nella borghesia post-sessantottina, incazzata (si fa per dire), e satolla (questo non è per dire), affinché faccia la “sua” rivoluzione. Forse. Può essere. Tuttavia, l’unica conclusione certa che si può raggiungere con una data sicumera in questo momento storico-politico è che se la definizione proposta nel primo paragrafo è la definizione gramsciana di “base” e di partito comunista per antonomasia,  la “base” e il partito democratico, figlio e nipote della creatura del pensatore sardo, gramscianamente, non esistono più.

Un’altra querelle interna, politico-mediatica sul nulla, dunque? Il dubbio mi coglie ma non troppo, di sicuro non mi sorprende. Del resto, se la dirigenza di sinistra rottamata dal Segretario fiorentino (Matteo, purtroppo, non Niccolò!), aveva una passione non indifferente per la mobilitazione, l’oratoria inutile, l’esternazione e la retorica enfatizzata, esagerata, non scherzano neppure i “ghost-writer” renziani, i quali sembrano avere davvero poco in comune con la genialità concisa di Alastair Campbell, l’esperto di comunicazione di Tony Blair che creò il famosissimo “la principessa del popolo” in occasione della morte di lady D (anche se c’é chi dice che la fortunata espressione sia farina del sacco dello stesso Blair).

Lungi dal riprendere anche solo un riflesso della qualità retorica gramsciana, il problema nei discorsi di Renzi è che cominciano a diventare noiosi, pedanti, ripetitivi; non stupirebbe se si scoprisse che sono la causa prima del crescente dissenso che lo ha accolto, tra i fischi, anche ieri a Ferrara, solo per fare l’ultimo esempio. Donc… Basta dire che l’Italia ce la può fare! Basta dire che c’é tanto da fare! Basta dire che l’Italia è da cambiare! L’Italia, con tutto il rispetto per Matteo Renzi e i suoi esperti di strategie comunicative, non è un vecchio dirigente PCI da rottamare e non c’é nulla da cambiare. Di fatto basterebbe fare solamente poche cose presto e bene, lavorare di più, viaggiare e parlare di meno…

Parafrasando il Joseph Antoine Dinouart de “L’arte di tacere” (1771) si potrebbe forse dire che: “È bene parlare solo quando si deve dire, e quando si è fatto, qualcosa che valga più del silenzio”. Qualcuno di voi l’ha già visto o sentito questo qualcosa? Nel caso scriva, siamo qui, ma si ricordi che alla maniera del grande Sagan noi crediamo che “Extraordinary claims require extraordinary evidence” e non facciamo sconti a nessuno.

Featured image, Alastair Campbell.


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