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George Dryer (Gerard Butler) è un ex campione di calcio scozzese ormai allo sbando. Con un divorzio alle spalle, di cui egli stesso fu la causa, prova a ritornare sui suoi passi e tentare almeno di recuperare il rapporto con suo figlio, Lewis. L’idea di George era quella di rimettersi in gioco nel mondo della telecronaca sportiva, questo fino a quando non decide di assistere agli allenamenti del figlio. Qui, Dryer inizia la sua corsa verso la rinascita personale, allenando la squadra del piccolo Lewis e, al contempo, aggravando gli squilibri ormonali delle mamme in tribuna.
Pensare che il regista romano emigrato ad Hollywood, ha voluto precisare fin da subito alla stampa, che il suo film non è una commedia romantica, come è stata al contrario etichettata, bensì drammatica. Ma rimane un profondo dubbio, su come questo apparente equivoco, possa cambiare in qualche modo le sorti del film in questione.
L’idea di Quello che so sull’amore nasce su un campo di baseball, quando Robbie Fox (sceneggiatore) e Jonathan Mostow (uno dei produttori) si incontrano nelle vesti di primo e secondo allenatore della squadra in cui giocava il figlio di Mostow. Da qui poi prese forma il progetto del film, con la prima scelta per Butler nei panni del protagonista e del regista italiano dietro la macchina da presa.Il nome di Gabriele Muccino è stato fatto immediatamente, raccontano i produttori, questo perché serviva un regista già avvezzo a storie toccanti e commoventi, capace di dare al tutto però, anche un tocco di comicità e divertimento. Detto questo, diciamo che in linea generale ci siamo, poiché ci si diverte e ci si rammarica del fatto che siano riusciti a trasformare Butler in una sorta di Muccino Jr palestrato e decisamente più affascinante, ma non meno impacciato e immaturo del ragazzino che abbiamo conosciuto nel film Come te nessuno mai (1999). L’idea del voler raccontare la vita di un padre alla ricerca di una seconda possibilità, della maturità e dell’istinto paterno, non è cosa semplice e, soprattutto, non si può pensare che basti una palla, e tre/quattro attori rilevanti per riuscirci.
Per diventare un padre migliore non basta sacrificarsi e cedere alle voglie di donne svampite e depresse, passare una settimana con il proprio figlio dopo sei anni di “amnesia” totale. Risultano persino a disagio attrici abituate a ricoprire ruoli importanti come Uma Thurman, Jessica Biel, Catherine Zeta-Jones. La Thurman relegata ai margini della moglie svampita con evidenti problemi matrimoniali, la Jones nei panni della mamma che piange di notte perché il marito dorme in camera con la figlia, ma di giorno poi si trasforma in una “acchiappa uomini” determinata. La Biel, non ne parliamo nemmeno. La mamma che ha cresciuto il figlio da sola, facendo fronte all’immaturità di un marito troppo impegnato a tradirla non appena poteva, quella che poi alla fine però si scioglie con espressioni “inebetite” (concedetemelo), annullando il suo secondo matrimonio per tornare con l’ex marito. Il tutto alla velocità della luce. Va bene che il cinema dilata il tempo, ma né la sceneggiatura, né tantomeno la regia, hanno saputo sfruttare quegli espedienti che, i grandi registi e sceneggiatori , conoscono.
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