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Quello non ero io – dodicesima puntata

Creato il 07 febbraio 2011 da Olineg

 

Quello non ero io – dodicesima puntata

"Hypnosys" by Escif

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-Allora?
Mi fa Samuel, mentre un lavavetri ci snobba puntando un Bmw alle nostre spalle.
-Allora cosa?
Rispondo io. Un centocinquanta guadagna qualche metro infilandomi sulla destra.
-Allora c’hai scopato con la tipa o no?
-Che c’è? La mammina ti ha cancellato i filmini porno e ti serve materiale su cui farti le seghe?
-No, a farmi le seghe ci pensa già la tua, di mammina.
-Ah, sta bene? Io è quasi trent’anni che non la vedo…
Mi volto verso Samuel. Lui non mi guarda. Dopo un po’  mi dice: -È  verde; parti finocchio.
Parto.
Entriamo nella chiesa, sembra non esserci nessuno. Ho avuto come l’impressione che il pesante portone fosse forzato. Ci sono dei lavori in corso, una botola è aperta nel pavimento e dei cavi elettrici ci si tuffano dentro, ma non c’è traccia di operai, restauratori o preti. Non frequento i cantieri e le chiese, ma penso sia normale che alle dieci di sera non ci sia movimento. Hanno sbagliato a darci l’indirizzo. Oppure è uno scherzo.
-Andiamo.
Dico a Samuel. Lui mi risponde di andare in macchina, che lui arriva subito. Non sapevo che fosse religioso. Almeno penso che lo sia. Che voglia pregare o qualcosa del genere, non penso voglia rimanere solo per incularsi gli spicci dell’offertorio. Sarebbe disonesto da parte sua, intendo non steccare il lavoro.

Uno non può svegliarsi la mattina e mettersi a fare il baro, come uno non può svegliarsi la mattina e mettersi a fare il chirurgo, e se è vero che c’è qualcuno che si finge medico senza essere neanche laureato, di bari improvvisati non se n’è mai visto uno. Forse perché il finto chirurgo gioca con la vita degli altri, il finto baro con la propria. Uno non può svegliarsi la mattina e mettersi a fare il double duke o il ruffle shuffle, uno non può svegliarsi la mattina e provare un miscuglio nel cavo della mano, altrimenti detto all’italiana. Un modesto baro professionista è dieci volte più veloce, dieci volte più preciso del migliore dei prestigiatori da palcoscenico. E guadagna cento volte di più. Se ti accorgi di stare davanti a un baro la cosa più intelligente che puoi fare è alzarti dal tavolo, ma generalmente è troppo tardi. E noi lo capimmo quando finimmo a Las Vegas, la bisca di via Salaria.
Col poker cominciammo a lavorare di brutto, era rischioso, poco remunerativo ma era schifosamente divertente. Siamo arrivati a lavorarci fino a tre polli a notte. Ogni sera giravamo un remake de il “Regalo di Natale” di Pupi Avati nel nostro ufficio. Con l’esperienza diventammo spudorati; ci scambiavamo le carte sul tavolo, in due tempi, indipendentemente da chi dava le carte. Un pollo che ancora conservava un briciolo di dignità, forse per farci impressione ci disse che era un frequentatore della bisca nota come Las Vegas, a duecento metri da piazza Fiume, il posto dove secondo lui si giocava più forte in tutta Roma. Facemmo vincere il pollo, ci serviva per entrare a Las Vegas, lo facemmo vincere alla grande, perché doveva presentarci come dei coglioni.
Las Vegas era uno stanzone sotterraneo a cui si accedeva da un cortile interno, forse un tempo era una cantina, forse era stato usato come rifugio durante i bombardamenti. Più che a un casinò del Nevada assomigliava ad una sala da gioco di inizi novecento, o forse lo era, forse quello stanzone era una bisca da sempre. L’illuminazione era tenue ma diffusa, al centro c’era una roulette immensa che mi dissero essere appartenuta ai Savoia, tutto intorno tavoli verdi, quelli da quattro, i più piccoli, erano verso l’esterno. La parete in fondo, quella opposta all’entrata, era occupata da un enorme mobile bar, ma a servire non c’era nessuno, chiunque poteva versarsi da bere liberamente, ma se qualcuno voleva tirarsela poteva sempre farsi portare da bere da un gorilla in cambio di una mancia. Era la suite del gioco d’azzardo capitolino; una retata di venerdì sera e sarebbe finita in commissariato buona parte della classe dirigente romana.
Pensavamo di lavorarci una bocciofila di vecchi rincoglioniti, invece eravamo in un vestibolo dell’intestino del potere. E non fu difficile muoversi al suo interno, il solo fatto di essere lì ti eleggeva a esserne degno, se eri lì non lo eri per caso, se eri lì non eri un morto di fame, se eri lì un motivo c’era. E  nessuno ti chiedeva niente, nessuno voleva sapere cosa facevi nella vita, le pubbliche virtù in quel sotterraneo valevano zero, quello che contava era solo il vizio privato.

Continua…

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