opera di Erica il Cane, 2010, Wroclaw (Polonia)
Ho parcheggiato Samuel al pronto soccorso circa alle undici e un quarto. Me ne sono andato subito dopo. So come vanno queste cose, è inutile farsi dire qualcosa nelle prime ore. Il tempo di dire il suo nome e che lo avevo trovato così, steso per terra, di mettere due firme su moduli che non ho letto, tanto il nome che ho messo non è il mio, e dopo sono sparito. Magari arrivavano gli sbirri e se c’è una cosa che agli sbirri piace fare e controllare se uno ha precedenti.
Da queste parti abita il pony biondo, sono andato da lei a dormire, o almeno a provarci. Non sapevo che scusa raccontarle ma lei non è sembrata stupita della visita notturna.
–Sono distrutta… ti aspetto a letto, quando vuoi vieni.
Mi ha detto. Ma io non ci sono andato. Sono rimasto sul divano a guardare la televisione. Non ho chiuso occhio tutta la notte. Alle quattro su Rai3 hanno dato “Piccoli omicidi tra amici” di Danny Boyle. Danny Boyle è un regista operaio, non ha collaborato neanche a una delle sceneggiature dei suoi film. Lui si occupa solo della messa in scena. Ma è l’operaio più visionario dell’industria cinematografica. Mi sarebbe piaciuto avere Danny Boyle come socio; dubito che Boyle se la sarebbe cavata meglio di Samuel, qualsiasi cazzo di cosa sia successa ieri sera, ma almeno lui si sarebbe fatto sfasciare la faccia con una colonna sonora da paura.
Sono nel reparto di terapia intensiva. Sto aspettando che qualcuno mi venga a dire qualcosa su Samuel. Un’infermiera ha detto che lo posso andare a vedere, però devo indossare mascherina e camice, ma io non ci sono andato. L’ho lasciato qui otto ore fa, non mi interessa vederlo, mi interessa sapere quanto è messo male.
Finalmente si fa vivo qualcuno; è un ragazzino, avrà a stento ventinove anni, sarà uno specializzando o un’altra cazzata del genere.
-Era lei che voleva sapere di Samuel Russo?
Mi dice.
-Sì.
-Lei chi è? Un parente? Il fratello?
-Secondo lei?
Gli dico mostrando con l’indice il colore della mia pelle, della mia faccia.
-Non ho tempo per gli indovinelli. Chi è lei?
-Sì… sono il fratello.
Rispondo.
-Suo fratello è fortunato, sa? Dalla Tac è risultato che l’ematoma celebrale è meno esteso del previsto…
Il moccioso si blocca, fa finta di leggere qualcosa dalla cartelletta che ha in mano, probabilmente è il suo patetico colpo di teatro.
-Per ora è in uno stato di coma vigile, ma non le nascondo che siamo ottimisti.
Per Samuel ho fatto quello che potevo. Ora mi tocca capire che cazzo è successo. Ma non so da dove cominciare. Riavvolgo il film. Entriamo in chiesa. La chiesa. La chiesa di San Lorenzo sulla graticola.
San Lorenzo: santo romano vissuto nel duecento. Era il cassiere della comunità cristiana dell’epoca. La sua morte è da attribuirsi all’imperatore Decio che pretese da lui il tesoro della comunità. Lorenzo si presentò davanti a Decio con un stuolo di pezzenti, mendicanti e storpi, e disse: -Ecco il tesoro della Chiesa.
L’imperatore, che probabilmente non aveva un gran senso dell’umorismo, o ne aveva uno tutto suo, lo fece bruciare vivo. Per questo martirio San Lorenzo è il santo protettore degli ustionati.
“La vita dei santi” era le mia lettura preferita da bambino, non che avessi molta scelta: o quello o il Vangelo. Ma nelle vite dei santi ci trovavo storie incredibili. Ogni vita, ogni santo, era un film; un film pieno di torture, supplizi, vendette e sangue. Il mio santo preferito era San Simeone stilita, detto il giovane, si ritirò in meditazione sul capitello di una colonna, e là rimase per buona parte della sua vita. Si era fatto fasciare le mani chiuse a pugno, col tempo le unghie crebbero e trapassarono le mani, spuntando dal dorso. Simeone era diventato un santo ancora in vita, frotte di credenti lo andavano a trovare, per chiedergli un consiglio, una grazia o semplicemente per vederlo. Un giorno Simeone scese dalla colonna, lasciò la città, e vagò. Vagò fino a quando non trovò una nuova colonna su cui vivere, laddove non lo conosceva nessuno e nessuno gli avrebbe rotto il cazzo. Forse la storia di Simeone mi piaceva perché era la dimostrazione che anche un sociopatico può diventare santo.
Tornai a sentire parlare di santi in carcere, da Guglielmo Di Francesco, detto Giovanna D’Arco, anzi non di santi, ma di sante, era uno dei miei due compagni di cella, l’altro era Spud. Di Francesco non perdeva occasione di ammorbarti con le pene di Santa Lucilla da Roma e della Beata Luisa di Omura, e gli venivano gli occhi lucidi, la voce acuta, e giuro che più di una volta gli ho visto una specie di bava agli angoli della bocca. Era dentro per commercio di pezzi di ricambio da macchine rubate; roba da poco, ma se poi è tornato dentro per aver violentato una suora, la cosa non mi stupirebbe affatto.
La vita carceraria è molto diversa da come la immaginavo; passi la maggior parte del tempo in branda, è come essere ricoverati in ospedale, anzi non in ospedale, è come essere ricoverati in un ufficio pubblico. Pochi conoscono la burocrazia che segna le giornate dei carcerati; ogni minima richiesta deve essere inoltrata tramite domanda scritta, consegnata al superiore, cioè alla guardia penitenziaria, che la passa al suo di superiore, che a sua volta la gira a chi di competenza. Non ricordo molto dei miei primi giorni al gabbio, ricordo il buio delle palpebre chiuse, quello sì, ma nient’altro, non posso neanche dire che fossi depresso: non lo ricordo. Poi ci fu l’incontro e da allora in poi ricordo tutto, intendo l’incontro con Francesco Rosi, con la sua filmografia. Una delle psicologhe del carcere aveva messo su un progetto insieme ad un’associazione di volontariato, ogni lunedì facevano vedere un film, lo introduceva uno sbarbatello spocchioso che mandava giù a memoria un minestrone di recensioni eccellenti, poi veniva proiettato il film, e dopo la psicologa cercava di far commentare la storia ai detenuti. Probabilmente alle proiezioni mi ci portò Spud, che ne approfittava per passare in infermeria dove comprava sottobanco delle pastiglie di destrometorfano.
Non so per quale ragione chi sceglieva i film avesse scelto proprio quelli di Francesco Rosi; forse perché come in nessun altro autore c’è l’uomo da solo contro le istituzioni, forse perché chi li sceglieva era un ex sessantottino o aveva sempre sognato esserlo, forse perché erano i primi che aveva trovato. Di certo a non scegliere i film era il volontario addetto al proiettore; un ragazzino di colore che rispondeva al nome di Samuel Russo.