Oggi vi racconto una storia bella. Una storia che fa parte della mia famiglia – e che, della mia famiglia, ne è l‘orgoglio, - ma anche di Roma. Una storia che ha in sè tutto il bello della mia città – di quella “Roma città aperta” straziata dal dopoguerra – e il buono del Natale. Una storia di bambini discoli, madri disperate e eroi per caso. E l’eroe, nella fattispecie, è mio nonno Domenico, il padre di mio padre, il cui coraggio è ancora oggi incastonato sulla grigia pietra di un palazzo di via dei Podesti 6, nel quartiere Flaminio, a qualche bracciata di Tevere dallo Stadio Olimpico. Che però allora era soltanto lo scheletro di quello che è oggi, e tutti chiamavano ancora lo stadio dei Cipressi.
E’ il 17 dicembre 1946 e il Flaminio, pure stamattina, s’è svegliato assetato d’acqua. So’ cinquanta giorni che i rubinetti, nelle case, girano a voto, bagnati soltanto di quella disperazione che s’ è ormai impadronita di tutta Roma, liberata dalla guerra, sì, ma non dalla fame. E in un brulicare nervoso di disperati, negozianti e residenti, la fila alla fontanella di via dei Podesti s’è fatta sempre più grossa. C’è chi urla, chi spinge, e chi, co’ le prescie ar culo, se fa da parte. Co’ la testa avvolta in uno scialle e le mani rattrappite aggrappate alla bacinella de ferro, tra quella gente in fila c’è pure la signora Maria. Se deve sbrigà, la sora Maria, perchè a casa ha lasciato er fioletto, Pierfranco. “Mamma scenne n’attimo e aritorna, sta’ bono, me raccomanno. Mamma torna subbbito!!”. E mentre aspetta er turno suo, non perde d’occhio la finestra der sesto piano.
A un certo punto un grido je squarcia er core. “Ahoo, ma che ce sta lì? Guarda ahò, parono du gambe!! Ahooo, ma è u’ regazzino!!”. La signora Maria non fa’ manco a tempo a gira’ l’occhi che vede tutti cor naso all’insù. “Massì è u’ragazzino…a sora Marì ma n’è fio vostro ??! Quella n’è a’ finestra de casa vostra?!”. Cor core che manca un battito, Maria butta per aria la bacinella, attraversa la strada e imbocca, cieca, il portone de casa. “Oddiooo è mio fio, oddio Pierfrà a mammaaa, oddiooooo Santa Rita, aiutame teee“. Davanti all’ascensore tentenna, “No, nu lo pio“, pensa, “quello se ferma“. E di corsa infila le scale…
Pe’ strada, intanto, è il panico. C’è chi urla, chi piagne e chi invoca l’aiuto de Santa Pupa. Scosso da tanto fermento nonno mio s’affaccia dar negozio suo. E’ quasi ora de pranzo, e nonno - che tutti là chiamano Memmo - de solito, a quell’ora, se ne va nel retrobottoga a preparasse da magná: du’ facioletti, un pezzo de pane… a casa sua da magnà n’è mai macato. Però quel giorno fa’ n’eccezione. Chissà, forse se lo sentiva, forse era destino che Roma sua se lo ricordasse a vita. Però è così, quer giorno nonno tarda e quando sente quer casino s’affaccia. C’hanno tutti er naso all’insù. Stanno tutti a guarda’ la finestra der palazzo de fronte, e quelle du’ gambette ciccione che spuntano fori. D’istinto attraversa la strada e se mette là sotto. “A Memmo, ma ‘ndo vai, ma che sei matto??”, je strilla uno, n’amico suo, uno der quartiere. ”Se quello te casca addosso t’ammazza, ‘sta fermo, fatte li cazzi tua, a Me’ “. Ma nonno non lo sente e se mette là sotto, pronto non lo sa manco lui a fa’ che.
A casa, intanto, ce sta nonna Maria, nonna mia, co’ tre fii piccoli: zio Alfredo de cinqu’anni, zia Anna de diciassette mesi e papà mio, che c’ha solo un mese e mezzo. All’appello però mancano du’ fie, Luciana e Luciana, la grande e la piccola – la piccola, che è poi la sorella gemellla de Anna. So’ morte tutte e due, una a un anno e mezzo de vita, l’altra a sei mesi. So’ morte de non se sa che: a quer tempo non ce se chiedeva mai perchè Dio, li regazzini, se li ripiava; se ‘ncassava er colpo e s’annava avanti, co’ n’altra gravidanza, co n’altro figlio, spesso co’ lo stesso nome. E nonno mio, che de anni ce n’ ha solo 31, quelle du’ bimbette ce l’ha ancora davanti all’occhi. E forse je se parano dinnanzi pure mentre guarda quelle du’ gambette penzola’ da venti metri più su de l’occhi sua.
Accanto intanto je s’è messo pure er signor Malaguti, er portiere dello stabile là vicino, e pure lui tende le braccia. “T’aiuto, così in due forse je la famo“. Il bimbo, ner mentre, se sporge sempre de più.
La sora Maria invece - che avevamo lasciato sulle scale - continua a salì, e continua a invocà Santa Rita. “Santa Rita te prego sarvamelo, Santa Rita te prego sarvamelo“. Sei piani a piedi però so’ tanti, e so’ ancora de più se er core non te tiene perchè è affannato dalla preoccupazione. Uno, due, tre piani, arranca Maria. Al quinto però le forze scennono e quando, dalla strada, sente arivà un urlo, cede. “E’ cascato“, pensa, “E’ morto. Mi’ fio è morto”. E s’accascia a terra, quasi morta pure lei.
E non se sbajava, core de mamma: Pierfranco è cascato davvero. Coi suoi venti chili a diciotto mesi, mentre le forze abbandonavano er corpo della madre, il bimbetto s’è lasciato cadere. Prima una manina, poi l’altra, ed eccolo ora vibrare per aria. Nonno mio e il portiere stanno là sotto. E Pierfranco vola: quinto piano, quarto piano, terzo piano…er signor Malaguti trema, non je la fa, sviene. Nonno invece regge.
Co’ le braccia tese tenta de segui’ il movimento de’ regazzino: prima a destra, poi leggermente a sinistra. Intorno a lui, intanto, c’è er silenzio. No, per carità, la gente urlava, strepitava, piagneva, ma lui non la sentiva. Concentrato a guarda’ er bimbetto, non sentiva nessuno. Poi a un certo punto sente ‘na botta, acuta, fortissima, come se j’avessero staccato un braccio a ciancicate. Se guarda addosso e se ritrovo co’ e ragazzino in braccio. Cadono, se rotolano sur marciapiede ma e’ ragazzino non se move. “E’ morto”, pensa nonno mio. Ma è in quel mentre che Pierfranco se mette a piagne. “E lì ho capito che stava bene”, racconterà poi nonno ai giornalisti, “perchè quanno i bambini piangono vor dì che stanno bene”.
Tra la folla, che s’era nel frattempo assiepata in via dei Podesti, è euforia allo stato puro. Come se la guerra fosse finita n’altra volta. Come fossero tornati l’americani. Come fossero tutti ricchi. E ricchi lo erano davero, de gioia, de quella gioia che se prova poche volte in una vita sola.
Co’ e regazzino ancora stretto ar petto, nonno mio se fa avanti tra la folla e strilla: “Chiamateme ‘n tassì, un tassì che lo portamo all’ospedale”. In quer mentre je se fa avanti un signore che je fa: “Ma questo è mi’ fio, ariddamelo”. “E allora se è tu fio viè co’ me, che lo portamo all’ospedale”, risponde nonno, tenendo stretto que’ regazzino ciccione come fosse er suo. Ma l’ospedale a quei tempi è un lusso, e e’ regazzino viene portato dar medico de casa. “Pe’ esse cascato dar seggiolone se l’è cavata bene”, disse er dottore. Quanno j’hanno detto che s’era fatto un volo de sei piani de palazzo j’ha rifatto la visita: s’era rotto un’anca. Solo quella. Mentre nonnino mio s’era lussato ‘na spalla. Solo quella.
Poi arrivarono i giornalisti, quelli che all’epoca la gente la chiamavano ancora “la cittadinanza”, come s’era fatto sotto Mussolini, quelli che sur giornale non se facevano remore e mettevano pure la via de casa. Nonno era: “Domenico Ferri, residente in via dell’Argilla 4, e con il negozio a viale del Pinturicchio 18″. E dopo i giornali arrivarono pure le istituzioni, che a Memmo je diedero la medaja. Lui se l’aspettava d’oro, ma j’arivò d’argento perchè, je dissero, quella d’oro se dava solo alla memoria. Doveva morì, insomma. “Me l’hanno data de ‘n grado inferiore perchè, oltre a ragazzino, ho sarvato pure me stesso”, annava dicendo amareggiato nonno. E insieme alla medaja je diedero pure un premio de tremilalire. Lui ne aggiunse altre due mila (insieme ar cibo, manco li sordi j’erano mai mancati, a nonno mio) e andò all’Unità, in redazione proprio. No, nonno l’Unità non l’aveva mai letta, era fascista lui. Ma a dispetto de quello che se dice dei fascisti, lui era pure bono, bravo e bono.
Il racconto der giornalista che se lo vide davanti fa accappona’ la pelle: perchè non è da tutti ritrovasse davanti un eroe. Ma nonno non stava lì pe’ cerca’ gloria. Lui je voleva solo chiede de apri’ ‘na colletta de sordi pe’ dalli ai ragazzini poveri, ai fii dei lavoratori, a quelli che leggevano l’Unità. Natale era vicino, e je faceva piacere sapelli felici, quei ragazzini. La colletta ebbe un successo incredibile – furono raccolta più de ducentomila lire - e quell’anno a Roma il Natale fu un po’ meno rigido pe’ tanti.
Nonno mio poi è morto, ventun’anni dopo quel partistacciaccio bello de via dei Podesti. E in quei vent’anni, Pierfranco, che de cognome fa Vitozzi, continuò a vedello cresce. Come se fa co’ un fiio. Un fio che forse Cristo je fece casca’ dar cielo pe’ compensa’ quelle due che je s’era portato via.
E se ve capita de passà pe’ Roma, annatece a via dei Podesti 6. L’immagine de Santa Rita e un’epigrafe cor nome de nonno mio stanno ancora lì. Passatece e dateje un bacio. Pe’ lui sarebbe come riceve quella medaja d’oro che il ministro je negó. Alla memoria.