Care compagne e cari compagni, oggi avrei voluto essere all’Aquila, insieme ai nostri compagni che in queste ore stanno manifestando contro l’arroganza infinita di un potere che ha utilizzato la tragedia del terremoto per favorire speculazioni e alimentare con i soldi dello Stato clientele mafiose e malavitose. Compagni che oggi iniziano la raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare per la ricostruzione sostenibile, trasparente e democratica del territorio aquilano.
Oggi avrei voluto essere a Catanzaro, in mezzo ai nostro compagni calabresi, per fare sentire al compagno del collettivo Riscossa, accoltellato poche settimane fa da una squadraccia fascista di fronte all’Università, la solidarietà antifascista del nostro popolo, che mentre combatte tutti i giorni la ‘ndrangheta e i poteri politici ed economici del territorio ed è lasciata sola dalle istituzioni a lottare fisicamente contro i rigurgiti sempre più frequenti di fascismo e di razzismo, ipotizza forme di democrazia diverse e più avanzate, costruisce reti di solidarietà con i soggetti studenteschi, con i migranti.
Perché dico queste cose? Perché o noi partiamo da qui – dalla lettura viva e quotidiana della realtà sociale e politica – oppure siamo già finiti, impantanati in un politicismo e in un tatticismo noiosi, logoranti, incomprensibili.
Questo deve essere – al contrario – il congresso del coraggio e della chiarezza.
Sento nell’animo di molti compagni dubbi, timori, titubanze che sono lo specchio di una linea politica dubbiosa, timorosa, titubante, come se avessimo in tutto quello che facciamo e diciamo il freno a mano tirato e una sorta di pudore e di insicurezza permanente.
Pensiamo al tema delle alleanze.
Lo abbiamo affrontato in questi mesi e lo stiamo affrontando tuttora in modo altalenante, contraddittorio, prima rifiutando qualsiasi ragionamento sui contenuti e sui programmi con il Pd, poi facendo alleanze nella stragrande maggioranza degli enti locali, salvo poi tornare a ripetere – più recentemente – che non ci sono le condizioni per alcun accordo programmatico con il centrosinistra.
Ancora oggi, ieri, ci sono interviste e dichiarazioni di compagni che dicono cose molto diverse tra loro e tutti sembrano avere certezze granitiche e aggiungo una buona dose di pregiudizi.
Vogliamo prima di affermare verità dogmatiche iniziare a discutere di programmi, di contenuti? Vogliamo avanzare con forza al Paese e quindi anche al centrosinistra alcuni punti di carattere programmatico che noi riteniamo essenziali, evocativi di un progetto di cambiamento?
Vogliamo parlare di scuola, Università pubblica, precarietà, crisi, politiche economiche e fiscali e vedere su queste cose cosa dice il centro-sinistra? Vogliamo parlare di lotta vera e sociale alle mafie, vogliamo parlare della cricca, delle leggi speciali, delle speculazioni dell’Aquila?
Oppure dobbiamo stare allo stadio, dividendoci tra chi tifa per un accordo di governo e chi tifa per la più beata solitudine?
Stesso discorso vale per il rapporto con Sinistra Ecologia e Libertà. Noi diamo troppo spesso l’impressione di essere in balia degli eventi. Diamo talvolta l’impressione di rincorrere Vendola (dimenticandoci tra l’altro di analizzare quello che rappresenta il vendolismo in questa democrazia malata e sempre più presidenzialista) e talvolta, ancora più spesso, di concepirlo come il nostro principale nemico, con un atteggiamento di ostinata chiusura a qualsiasi forma di rapporto di collaborazione e di unità d’azione con quella formazione politica.
Anche questo secondo atteggiamento è figlio di una sindrome di subalternità, di inferiorità, come se noi dovessimo tarare la nostra fisionomia politica, il nostro profilo politico, in base a quello che fa Sinistra Ecologia e Libertà.
No, cari compagni, noi siamo un’altra cosa, siamo un soggetto politico che deve trovare in sé la propria ragione di esistere, il proprio progetto politico, e che per accorgersi che esiste non deve specchiarsi in casa d’altri.
Per non parlare di quella sindrome della sconfitta che riguarda la nostra identità e che si manifesta nel fatto che ogni volta che diciamo che siamo comunisti dobbiamo fare penitenza pubblica sugli errori e sugli orrori del nostro passato.
Vorrei che in questo congresso si potesse semplicemente dire che siamo comunisti e che vogliamo costruire un unico grande e forte partito comunista italiano!
E che siamo fieri di essere piccoli uomini seduti sulle spalle di giganti che hanno fatto la Resistenza, sconfitto il fascismo, conquistato con il sangue e il sudore salario, diritti, tutele per milioni di lavoratori.
Perché è proprio in ragione di quella storia – dovremmo ricordarcelo più spesso – noi oggi possiamo chiamare “comunismo” il nostro progetto di rivoluzione, di eguaglianza e di libertà.
Ecco, il mio è un invito a scrollarci di dosso questa sindrome della sconfitta che ci condiziona così pesantemente, anche nei risvolti per così dire più intimi e soggettivi.
Scegliendo bene i passaggi tattici ma soprattutto individuando con chiarezza la nostra linea strategica, quello che vogliamo essere non per noi ma per il Paese, per le lotte sociali, per il conflitto di classe e per i lavoratori.
Io la dico così: noi dobbiamo fare due cose, semplici ma determinanti.
La prima: costruire una soggettività comunista e d’alternativa che metta fine alla persistenza nel nostro Paese di due partiti comunisti divisi e distinti. È un dato di realtà totalmente irrazionale che va rimosso. Non ha senso, nessuno ne capisce il senso: Rifondazione comunista e il Partito dei comunisti italiani debbono unirsi in un unico soggetto politico, che sia la casa di tutti le comuniste e di tutti i comunisti del nostro paese.
La seconda: guai a noi se ci accontentassimo di celebrare la nostra identità e rimanessimo chiusi nei nostri recinti. Questo è il tempo in cui i comunisti devono mettere a disposizione – è questa la seconda cosa che dobbiamo fare – la nostra forza per un progetto complessivo di rinascita e di ricostruzione di un campo ampio della sinistra italiana. E non siamo noi a decidere chi ne fa parte, cancellando per essere chiari dal nostro orizzonte quelle forze che a parte del nostro gruppo dirigente non piacciono.
Aprire quindi un processo unitario e non fare l’errore di pensare che questo congresso chiude il percorso unitario.
A chi replica che questo ragionamento pecchi di politicismo, rispondo che è esattamente il contrario.
Politicista – e autolesionista – sarebbe chi continuasse a guardare al proprio ombelico e non capisse che la piazza del 16 ottobre, la grande battaglia per il lavoro contro l’arroganza di Confindustria e di Marchionne, ci impone di stare uniti.
Unità, quindi. Unità tra i comunisti e unità della sinistra.
Ma non è sufficiente, perché io ho l’impressione che l’altra parola chiave di cui il nostro congresso ha bisogno e dovrebbe discutere è questa: il rinnovamento.
Su questo concludo.
Abbiamo bisogno di un rinnovamento e di una innovazione a 360°.
Rinnovamento delle pratiche: perché quello che facciamo non è più sufficiente, non è più adeguato. Ancora non abbiamo capito, collettivamente, che la politica si fa anche in rete, su Internet e che gli spazi di democrazia e di visibilità si riconquistano non soltanto rivendicando la presenza in televisione e sui giornali che ci manca ma anche costruendo un profilo di esposizione pubblica (nella realtà materiale e in quella virtuale) nuovo, accattivante, generazionale, interattivo che altre forze politiche invece, con grande profitto sono state già da diverso tempo in grado di costruire.
Rinnovamento dei linguaggi, perché a volte le parole d’ordine che noi proponiamo, la vera e propria grammatica dei nostri interventi, non ha nulla a che vedere con la vita materiale quotidiana di milioni di lavoratori, di gente comune, che vede e respira nel nostro linguaggio pura ideologia perché sente che le cose che diciamo, il modo con cui le diciamo, è sconnesso con il proprio.
E rinnovamento anche, me lo consentirete, nel partito e nella sua immagine, a tutti i livelli. Un partito che non manda avanti e che, in una certa misura, non si fa guidare dai giovani è un partito già morto. Attenzione: il nostro obiettivo non è rottamare i gruppi dirigenti. L’obiettivo è chiedere a tutti noi di tracciare un bilancio serio degli ultimi anni per riflettere criticamente su quel misto di indifferenza e insofferenza che determina tra di noi le relazioni tra adulti e giovani. Un atteggiamento che è bene una volta per tutte mettere da parte e abbandonare.
Questo è un mondo che cambia troppo rapidamente per rimanere attardati nella difesa delle nostre antiche certezze e parallelamente delle rispettive, e altrettanto antiche, rendite di posizione.
Dobbiamo osare con tutto il coraggio di cui siamo capaci.
Ma prima di tutto il resto – e concludo – dobbiamo crederci. Perché la politica non si fa soltanto con la consapevolezza razionale e con il cinismo ragionieristico della correttezza dei propri obiettivi. La politica si fa anche con i sentimenti, con la nostra volontà, con il nostro entusiasmo, con la nostra passione e la nostra voglia di cambiare il mondo.
La politica a sinistra si fa anche con il cuore. È anche per questo che mi sento di dire che è giunta l’ora di buttare il cuore oltre ogni ostacolo.
Grazie.
SIMONE OGGIONNI
Primo Congresso nazionale della Federazione della Sinistra
Roma, Hotel Ergife, 21 Novembre 2010