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Rabbit hole, di James Cameron Mitchell

Creato il 09 settembre 2011 da Dallenebbiemantovane

No, non è un film perfetto.
E forse non è perfetto perché tratta un tema così ripugnante - il lutto - che si preferirebbe rimuoverlo non solo dalla nostra realtà ma anche dai nostri pensieri, e quindi anche un film che ne parla, per quanto bene possa farlo, è fatalmente destinato alla rimozione.
Non mi sorprende quindi che Rabbit hole (Usa 2010, con Nicole Kidman, Aaron Eckhart, Dianne Wiest) non abbia vinto un solo premio, nemmeno l'Oscar per la miglior interpretazione femminile o il  Golden Globe o lo Screen Actors Guild, cui pure l'attrice era candidata. Gli Oscar vanno ai film spettacolari (questo non lo è) e ai ruoli freak (qui non ce ne sono).
Va detto che la stessa Kidman, la quale all'epoca delle riprese si era appena sottoposta a un trattamento al botulino per nascondere le rughe del viso, si dichiarò successivamente pentita in quanto si era resa conto, rivedendosi, di aver ridotto la mobilità e la gamma espressiva del proprio volto.
E Nicole Kidman è una delle migliori attrici cinematografiche del mondo: passeranno gli anni, ma credo che la sua Virginia Woolf in The hours, la dark lady di Malice, la Alice di Eyes wide shut (dove la sua bravura eclissa impietosamente quella dell'allora marito, che infatti poco dopo chiese il divorzio), passando per The others, Birthday girl, Dogville, Birth (Io sono Sean), Fur, saranno ricordate anche tra cinquant'anni. Le fa onore aver ammesso i propri errori e aver capito che, anche se la bellezza è il principale patrimonio dell'attore, ciò che lo mantiene in vita nell'ecosistema darwiniano di Hollywood, la paralisi espressiva avrebbe snaturato le sue capacità e annientato un talento coltivato e perfezionato in tanti anni di onorata e onorevole carriera.
Verrebbe in mente, per contrasto, il desolante risultato del lifting su Meg Ryan, uno dei visi più amati e oserei dire simpatici del cinema Usa, che da In the cut  in poi non ha più azzeccato un film, anche per colpa di scelte professionali infelici e per un'assurda testardaggine nel cercare ruoli drammatici pur essendo un'attrice perfetta solo per la commedia brillante. Ma non ho voglia di infierire e passo oltre.
Tornando a Rabbit hole, recentemente visto in dvd, è basato sulla omonima pièce teatrale grazie a cui David Lindsay-Abaire (autore anche del soggetto del film) ha vinto il Premio Pulitzer. L'ho scoperto solo dopo la visione, ma devo dire che non me n'ero resa conto, segno che la storia funziona e che la sceneggiatura è riuscita a superare l'unità di luogo del teatro, anche se la casa e lo splendido giardino vista lago della coppia protagonista restano come claustrofobico scenario di gran parte del film.
Rebecca e Howie sono una coppia alto-borghese del Queens colta in una fase molto delicata della loro vita: sono passati alcuni mesi da quando hanno perso il figlio di 4 anni in uno stupido incidente per strada: il bambino aveva seguito il suo cane, un'auto ha sterzato per evitare di investire l'animale, ma il conducente, un sedicenne (in America si prende la patente presto), non ha visto il bambino.
Neppure noi lo vedremo mai, il bambino: non solo per una precisa scelta degli autori, ma anche perché Rebecca ha deciso di cancellarne ogni traccia: nel corso del film progressivamente si libera dei suoi abiti, dei suoi giocattoli, cancella (fingendo un errore) un video del bambino dal cellulare del marito Howard.
Marito che, al contrario, vive il suo lutto in modo molto più "libero" e cerca di superare il dolore della perdita aprendosi agli altri, incontrandoli, parlandone con altri genitori in uno dei tanti gruppi di sostegno che, da Fight club in poi, abbiamo imparato a sbeffeggiare per la loro inutilità e supponenza.
Rebecca non piange e non vuole essere consolata da nessuno. Rebecca si è data al giardinaggio e rifiuta gli inviti, non come una madre in lutto, ma come una signora che "ha già altri impegni". Non vuole parlarne con sua madre (che ha perso un figlio anche lei, ma era già adulto e drogato, e a Rebecca fa rabbia sentir paragonare le due situazioni). Rebecca non vuole discorsi su Dio che "aveva bisogno di un angelo e si è preso nostro figlio" e lo urla istericamente in faccia a un'altra coppia in cerca di facili consolazioni teologiche. Rebecca non vuole più parlarne e basta.
Il conflitto centrale del film sta tutto qui. Nel decidere se dopo una simile perdita vale ancora la pena stare insieme, se ha ancora senso la coppia, e se in una coppia si può ancora trovare un qualche collante (ma quale?) che impedisca la disgregazione, dopo che il loro collante biologico è stato distrutto.
Nei sorrisetti sbrigativi di lei e nel disorientamento emotivo di lui. In lei che si rifiuta di parlare della tragedia e in lui che, al contrario, vuole sentirsi libero di parlarne, di ricordare, di affrontare la faccia mostruosa del lutto a viso aperto.
Sinceramente Eckhart mi ha un po' delusa in questa interpretazione: il suo però è un ruolo difficile, di uomo cortese abituato a non esprimere teatralmente le emozioni, ma che di emozioni ne ha eccome. E che, quando si sente rifiutato dalla moglie da tutti i punti di vista, dialogo, empatia, emozioni, fisicità, prova fortissima la tentazione di cercare sostegno in una donna che vive la sua stessa situazione, una donna incontrata nel gruppo di selfhelp.
Il tradimento, alla fine, non si consumerà, e va dato atto al regista di aver evitato un cliché scontatissimo; sarà invece Rebecca a tradire, per così dire, quando furtivamente comincerà a seguire e ad incontrare il ragazzo che le ha ucciso il figlio.
Non per vendicarsi o per chissà quale perversione: solo per parlare con l'ultima persona che ha avuto a che fare con il bambino, una persona che a differenza di quel bambino ha ancora una vita, un futuro. Lui andrà al college, lui andrà al ballo di fine anno scolastico e forse si innamorerà (splendida la scena in cui la Kidman lo spia dall'auto e scoppia, per la prima volta dall'inizio della pellicola, a piangere).
Lui, infine, è l'autore di quel fumetto fantascientifico che porta lo stesso titolo del film e che vediamo disegnare da una mano anonima in varie scene misteriose.
Alla fine la guerra non dichiarata tra i due coniugi si esaurirà: i due capiranno che l'unico modo per continuare a vivere non è né fingere che non sia successo nulla, né esibire impudicamente le proprie emozioni, ma venirsi incontro e continuare ad avere rapporti con il resto del mondo.


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