Magazine Diario personale
DEDIZIONE
“Questa non è un’uscita”.
(Bret Eston Ellis, American Psycho)
Il nuovo coach veniva da Gorizia. Si chiamava Maurilio Ilicic, e negli anni della sua permanenza alla Pallacanestro Lavinia saremmo riusciti a farcelo amico. Sulle prime ci mise soggezione. Introdusse sistemi d’allenamento inconsueti. Ci faceva correre palleggiando lungo il perimetro della palestra, mentre i suoi ordini fitti rimbombavano tra le pareti altissime che ne restituivano echi spezzati, inafferrabili. Si capiva un cazzo, mediamente. Si spiavano i movimenti dei compagni per indovinare come regolarsi.
Questo Ilicic era un tipo allampanato. Ombroso. Baffi incolti e biondicci. Era un timido di quelli che poi, quando meno te l’aspetti, esplodono in crisi di collera. Laureato in lettere, viveva di pane e basket. Nel parlato infilava qua e là tranci di dialetto friulano. Avevi l’impressione che lo facesse per sentirsi meno lontano da casa, senonché otteneva l’effetto, contrario, d’immalinconire pure te. Guardavi quei suoi occhi spaesati e chissà come ti mancava Gorizia, dove non eri mai stato.
Uomo caparbio, Maurilio si dedicava anima e corpo alla sua missione-passione. La pallacanestro. Allenava noi juniores e la prima squadra, e insegnava minibasket nelle scuole. Più che altro insegnava anche a noi, una volta preso atto del nostro livello tecnico davvero sconcertante. Veder giocare male gli procurava dolore fisico. Spesso, negli esercizi d’attacco, piazzava una sedia al limite dell’area dei tre secondi. L’ostacolo rappresentava un difensore da evitare, mediante un piede perno, una finta, un giro dorsale, una partenza incrociata. Al terzo errore di fila afferrava il difensore artificiale, lo innalzava sopra la testa e lo agitava bestemmiando. Quando la sedia volava via e si schiantava contro un pilone di sostegno della tribuna, capivamo che ci conveniva imparare.
Per lui era una professione, e si accontentava di guadagni appena sufficienti a tirare avanti con la moglie e due figli. Per questo lo rispettavo e lo ammiravo. L’ammirazione e il rispetto si gonfiavano dentro me in maniera esponenziale quando sentivo qualche mio compagno stronzetto e nato ricco dargli del fallito, ovviamente alle spalle, nel chiuso dello spogliatoio, o sotto il vapore delle docce, le poche volte che lo scaldabagno funzionava. Mi si gonfiavano dentro in maniera triste e indignata. Era come se quelle infamie le dicessero su di me, che avrei voluto diventare simile a lui. Differente solo per tipologia di, pazza, vocazione.
Fu per non ferire quella sua dedizione totale che la sera che stetti a casa a vedere l’Inter in TV chiesi al mio amico Julien di raccontargli che ero a letto con l’influenza. Julien eseguì diligente l’incarico e la volta dopo, a bordo della sua 127 gialla, mi disse che era tutto a posto. Perfetto. Bene così. L’avevo sfangata. Ma non era da me. Non avevo mai mentito così da vigliacco in vita mia. Così, seduto su una panca dello spogliatoio, cambiai idea. Gli avrei detto la verità. Era per me stesso che lo facevo, non per Ilicic. Quando scuola e parrocchia e famiglia per “educarti” ti immergono in una melassa da Libro Cuore, finisci col convincerti che confessare qualcosa contro il tuo interesse e senza esserci costretto possa fruttare un encomio, una medaglia, un’accresciuta considerazione della tua personalità, un umano incondizionato apprezzamento. Ovviamente non è così che funziona. Non è sparandoti ai piedi che diventi eroe guerriero.
Indossati i pantaloncini, la double face da allenamento, i calzettoni, le Nike azzurre con le stringhe azzurre e la giacca della tuta, feci il mio ingresso in palestra. Dovetti attendere. A colloquio con Maurilio c’era Julien. Mi avvicinai e ascoltai senza interrompere. Julien, chissà perché, gli stava chiedendo cosa pensasse del volley. «Dunque, la pallavolo. Sì. Sì. La palla-volo», ripetè lentamente Maurilio. Pareva animato dal più grande rispetto. Intento a scegliere e soppesare le parole per esprimere la sua scontata volontà di inchinarsi, ci mancherebbe, davanti a una diversa disciplina sportiva, un altro degnissimo sport come lo era la pallacanestro. «Sì sì, la pallavolo… xè la merda del basket!», esclamò a tradimento. «Quei che no gà testa per giocare a basket i và giocare a palavolo. Xè tuta la merda del basket. I salta i salta, i gà i mùscoi, ma i no gà un casso in dela testa. Alora i gioca a palavolo».
La curiosità di Julien era sistemata. Ora toccava a me. Mi avvicinai a Maurilio, in piedi vicino alla cesta metallica, ormai quasi vuota, dei palloni a spicchi. Erano rimasti quelli più piccoli, leggeri e spesso deformi, per lo più inutilizzabili, che chiamavo “gommini”. «Devo chiederti scusa per il mio comportamento dell’altra sera» sussurrai a mezza voce.
«Quale comportamento, Nicky?». Per tutti gli altri ero Nick. Per lui ero Nicky, o addirittura Nickily. Forse per la mia fragile magrezza. Tuttavia non lo diceva per sfottere. Lo diceva con affetto. Così alto e snello, potevo essere suo figlio. «Eri ammalato, no? È tutto a posto, Nicky» mi fece. «Vai a riscaldarti».
Presi fra le mani un pallone. Avevo pescato il peggiore di tutti. Un gommino vagamente a pera. «Ti ho fatto dire che ero malato» insistetti. «Invece sono stato a casa a vedermi l’Inter. Ti chiedo scusa. Non succederà più.»
Non si arrabbiò, ma gli cascarono le braccia. Come due pesi morti lungo i fianchi. «Che vuoi che dica», mi fece con un tono tra l’indispettito e il depresso che non prometteva nulla di buono. «Se devo aspettarmi questo da te che sei il più corretto, dagli altri che cosa mi dovrò aspettare?» Era ritto in piedi, ma sembrava prostrato sulle rovine di se stesso. Con la mia inutile, stupida sincerità lo avevo pugnalato nel petto. Anche se devo dire che il suo esagerato rammarico mi sgomentò. Era un uomo distrutto. Guardò in direzione dei due crocchi di giocatori che si riscaldavano sotto gli opposti canestri, nel gran rimbombo di palloni che rimbalzavano a grappoli sul linoleum azzurrino puzzolente di polveri e afrori di palestra. Il suo sguardo era quello del capitano di una nave ammutinata. Forse eravamo tutti maturi per passare alla pallavolo.
Per superare l’imbarazzo tentai un primo palleggio col mio pallone, che se ne schizzò via quasi rasoterra sulla destra come una palla da rugby, e andò perduto nella zona d’ombra oltre i piloni. Gommino a pera di merda. Non superai l’imbarazzo.
L’incidente si chiuse lì. Ma da quella volta, e per anni, io fui “quello che sta a casa a vedere l’Inter”, pur non perdendo mai più un allenamento, neanche con 38 di febbre, pur essendomi presentato anche la sera della finale di Coppa Uefa Roma-Inter. Era un superfluo allenamento di fine stagione, e allo Stadio Olimpico era in palio la storia. Ma io presi la macchina, la mia borsa e andai a Lavinia per allenarmi. Eravamo in sette, e Maurilio ci rispedì a casa. A vedere il secondo tempo dell’Inter.
«Non sei stato a casa a vedere l’Inter?» mi avrebbe chiesto beffardo sotto i baffi a ogni concomitanza con le coppe.
«No» mi sarei limitato a rispondere. Avevamo comprato un videoregistratore. Ogni volta, verso fine allenamento, irrompeva in palestra qualche imbecille di dirigente a strombettare il risultato.
Il nostro rapporto fra uomo e ragazzo divenne sempre più amichevole, nonostante quello fra allenatore e giocatore facesse acqua da tutte le parti, sfiorando il disastro. Di lui in particolare odiavo quegli scioperi del silenzio, quelle assurde manfrine che attuava quando le partite si mettevano male. Fasé quel casso che volé gridava abbandonando lo spogliatoio negli intervalli in trasferta sotto di venticinque punti, se qualcuno osava fiatare per contestare una sua attribuzione di colpa, o un porcodio urlato a pieni polmoni in faccia al giocatore sbagliato.
E alla ripresa del gioco si accasciava in panchina fermo, zitto, come un automa spento. Salvo riaccendersi quando le riserve, le presunte mascottes semispastiche, buttate nella mischia dal dirigente accompagnatore tanto per dar loro un contentino, un premio fedeltà, uno zuccherino amaro, rimettevano in piedi il punteggio fino a meno quattro. Allora Maurilio saltava su come una molla e chiamava il minuto di “sospenzione”. Per smitragliare istruzioni tattiche e suggerimenti, ma soprattutto per levare dal campo senza un grazie noi riserve, le presunte mascottes semispastiche, ributtare dentro i suoi stronzi campioncini boriosi Salvioni e Burgellis, spompi per aver giocato a tennis tutto il pomeriggio, e riperdere definitivamente la partita. Il fatto è che Maurilio Ilicic valeva mille volte più come istruttore che come psicologo e come stratega. Come istruttore tecnico, cadreghe sfasciate a parte, era il migliore e il più sapiente del mondo. Come stratega e come psicologo avrebbe fatto retrocedere in A2 la grande Ignis di Bob Morse e Meneghin.
Passarono gli anni. Una mattina mi trascinai di malavoglia in banca per chiudere il mio conto, che da ridisoccupato era solo fonte di stronze spese e balzelli. Mi parve di riconoscere nel funzionario che si occupò di me un giocatore del Castelprete che avevo affrontato da avversario col Lavinia. Un bestione pelato e massiccio a cui avevo fatto sentire i gomiti, uno con un cognome corto e molto buffo, che avevo sulla punta della lingua ma al momento non mi veniva. Udii un impiegato che nel passargli una telefonata lo chiamò Bum. Gli domandai se era proprio lui quel Bum del Castelprete e se giocava ancora, anche se dalla pancia che gli era cresciuta capivi subito che era una di quelle domande così, tanto per parlare. Era praticamente incinto. Disse che aveva smesso e ora faceva il dirigente incinto sempre a Castelprete. Per inerzia di fiato gli dissi che giocavo ancora a Lavinia. A lui non gliene poteva fregare di meno, è chiaro. Però mi chiese se a Lavinia c’era ancora “quel pazzo di Ilicic”. Risposi che c’era sì, quel pazzo di Ilicic, ma allenava le giovanili. Noi della prima squadra adesso avevamo un mio coetaneo che aveva giocato in serie B. Fungeva da allenatore-giocatore, e ci stava spingendo fin su in Promozione.
«Quello è un pazzo», ribadì questo Bum, che pareva interessato solo a denigrare Ilicic. «Un mentecatto. L’anno scorso si è presentato da noi a Castelprete a offrirsi di allenare. Voleva settecentomila lire al mese, voleva. Patetico. Sembrava un mendicante. Mi son vergognato io per lui. Ma trovati un lavoro vero, diocristo! Un lavoro dignitoso! E allena nel tempo libero come fanno tutti gli altri, perbacco! Invece di renderti ridicolo!»
Io a questo qui in partita avevo fatto sentire i gomiti. Eccome se glieli avevo fatti sentire. Ero magrolino e tutto, ma nei tagliafuori sapevo farmi rispettare. Così grande e grosso, non mi aveva fatto paura neanche un po’. Gli avevo fatto assaggiare i miei gomiti. Avevo anche preso un rimbalzo d’attacco nella stratosfera sopra la sua testa pelata, e poi gli avevo segnato in faccia. Ma soprattutto gli avevo fatto più volte assaggiare i miei bei gomiti affilati.
Ma adesso, incredibilmente, inarcai le sopracciglia per dargli ragione. Perché devo essere così codardo, mi dicevo nel contempo, e senza motivo alcuno per esserlo? Scossi persino il capo, per dargli ragione. Invece di ripiantargli un bel gomito in quella cazzo di pancia. Bum! Perché così vigliacco, mi accusavo, e senza vantaggio alcuno da ricavarne? Mi attestai su un distratto sorriso di circostanza. Anche se non capivo esattamente di quale, circostanza.
Ma io voglio più bene al pazzo Ilicic o a questo schiavo escrementizio, cercavo di chiarirmi, mentre da pusillanime continuavo ad annuire, a mostrarmi condiscendente, mentre dentro mi sentivo come se quelle cattiverie le stesse dicendo contro di me, pezzente ridisoccupato con ambizioni, figurarsi, letterarie che chiudeva il conto, che batteva in ritirata, con sulle labbra un indecoroso sorriso fuori luogo, un sorriso di resa, di rinuncia, di rottamazione del sé. Proprio lì dentro poi, in quella filiale che un paio d’anni prima, dopo il pensionamento di mio padre, avrebbe dovuto secondo regola non scritta della Popular Bank diventare il mio luogo di lavoro, a patto di soddisfare due postille ancor meno scritte di tutto il regolamento non scritto: aver avuto un padre lecchino (e la mia stirpe ha molti difetti, ma peli di culo sulla lingua non ne abbiamo mai avuti e non ne avremo mai), e soprattutto divenire, come requisito minimo di base, un adepto di cielle, questa setta moderna e mafiosina che adora con sincera passione il Dio Filigranato, e in sottordine Gesù di Nazareth (nella filiale c’erano entrambi: Sua Maestà il Denaro, e un disgustoso crocifissone particolarmente grosso e contorto). Che poi l’avevo solo scampata bella, ma questo è un altro discorso.
Frattanto, in coda agli sportelli, c’era questo energumeno vestito da analfabeta che si agitava sempre più. Era tutto sporco. Aveva in mano, nelle zampe bisunte, svariati milioni in contanti da versare. A un certo punto, lo Sporco si mise a scaricare insulti contro gli impiegati, colpevoli di non sbrigarsi abbastanza in fretta con gli altri clienti. Non avevano tempo da perdere, lui e i suoi contanti stropicciati. I cassieri, invece di mandarlo in culo, fecero a gara nel genuflettersi e nello scusarsi con lo Sporco. Anche il signor Bum schizzò in piedi, e abbandonò per un attimo la sua postazione defilata per andare a blandire l’arrogante energumeno arricchito e maleducato, usando la pancia per scodinzolare. Una scena stomachevole. Dai racconti che faceva mio padre quand’ero bambino, queste cose nella piccola filiale succedevano almeno due o tre volte alla settimana. Rispetto a ‘sta roba, il racconto della rapina, col vetro sfondato da una jeep, i mitra spianati e tutto quanto, mi aveva fatto assai meno impressione. Non sempre la peggior feccia è quella che i soldi, da una banca, li porta via. Anzi.
Presto! Via di qui! La sola cosa che riuscivo a pensare, guardando il bruttissimo crocifissone contorto appeso alla parete del tempio dell’usura. Mentre l’ex pivot, dopo aver leccato lo Sporco, finiva di spiegarmi. Che doveva trattenere sul conto una certa cifra di soldi miei per le “formalità di chiusura”. Praticamente tutto ciò che mi rimaneva, e che io avevo sperato di poter prelevare. Se fosse avanzato un rimasuglio di settanta-ottantamila, disse Bum, m’avrebbero poi spedito un assegno. Schifosissimi ladri.
Via! Pensavo io. Fuori di qui! Aria! Fatemi uscire!
Alla fine, indeciso se provare più pena per me stesso, per l’uomo-canestro pazzo o per l’uomo-valuta incinto, mi rinchiusi nella bussola strettissima all’ingresso con sulle spalle uno strano fardello di compassione tripartita. Mi sentivo meglio, lì chiuso. Come se la bussola fosse stata un rifugio. Un’isola di vetro dove morire in pace. E non un passaggio per uscirne fuori.
Nella foto in alto: il vostro Nick (ventenne) va a canestro nello scenario più suggestivo (e adatto a lui?) che si possa immaginare: il cortile di un manicomio abbandonato ad Agrigento!
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