Magazine Diario personale
LEGA LOMBA
Sul treno c’era questo buffo signore molto grasso e piuttosto imbiancato che si metteva sempre a parlare con noi. Cioè, lui parlava, e noi per educazione stavamo attenti.
Per chi ce l’ha presente, somigliava all’avvocato Renz di Un caso per due, un po’ più rotondo e un po’ meno avvocato. Chi non ce l’ha presente non mi rompa troppo il cazzo. Aveva degli occhialini che non servivano perché guardava solo da sopra, e parlava sempre dei programmi che ascoltava alla radio, e che la radio era intelligente e la televisione cretina, e noi lo lasciavamo parlare. Altre volte invece diceva cose sul latino e sul dialetto. Per fortuna, il nostro tragitto per andare a scuola era breve, e noi portavamo pazienza. Però a Gavirate eravamo contenti di scendere, e che il signore abbondante proseguisse per Varese.
Questi treni avevano almeno cinque vagoni, e noi cambiavamo sempre, e l’abbondante saliva a bordo una stazione prima. Ma evidentemente rimaneva in piedi, e a Gemonio ci teneva d’occhio. Aveva una predilezione per noi, come uditorio.
Ad ogni modo, anche se quello era il paese del maledetto ignorantificio, detto anche liceo scientifico, scendere a Gavirate era un sollievo, dopo tutti quei bla bla bla sul dialetto e il latino e le trasmissioni radiofoniche culturali.
A Varese il cicciottello aveva un negozio, mi disse un giorno il mio vecchio che lo conosceva di vista. Una piccola bottega di materiale elettrico e affini. Nel centro storico della città. Dalle parti di Corso Matteotti, però non proprio nel corso. In qualche viuzza più defilata, sperduta. Siccome questo tizio sul treno c’era sempre, e veniva sempre dove c’eravamo noi, e non se ne stava mai zitto, cominciammo di nascosto a chiamarlo l’Ippopotamo e a ridere di lui. Dicevamo “nienteippopotamo di meno” e altre simili stronzate. Così ci vendicavamo delle cose che ci toccava sentire tutti i santi giorni sulla radio e sul latino e sul dialetto, che proprio non ne potevamo più. Probabilmente, in questo suo negozietto non ci andava nessuno, e così lui passava tutto il tempo ad ascoltare qualcuna di quelle sue radioline che non avrebbe mai venduto. Pensai che da questo punto di vista poteva anche fare pena. Però agli altri non lo dissi.
A un certo punto all’Ippopotamo venne la frenesia della politica, e parlava sempre della Lega Lombarda, che a quel tempo non si chiamava ancora Lega Nord, e diceva Roma Ladrona e che i meridionali erano la nostra rovina. E che il dialetto andava scomparendo. L’unico che non scompariva mai, era lui.
Una volta ce lo ritrovammo nienteippopotamodimeno che sul treno della domenica pomeriggio che avevamo preso per andare allo stadio, a vedere la partita di serie B del Varese contro la Sampdoria. Venuto a sapere della nostra destinazione, ci ammannì tutta una serie di dotte delucidazioni sulla fusione tra le antiche squadre genovesi della Sampierdarenese e dell’Andrea Doria.
Noi eravamo tentati di dirgli qualcosa sulla fusione delle antiche parole babilonesi Vhaffah e ‘Nqulu, ma non dicemmo niente. A quei tempi si portava un sacco di maledetto rispetto, sapete, per i grossi. Volevo dire i grandi.
Quelli dell’Ippopotamo, col tempo, divennero dei veri comizi elettorali ferroviari (ma il bello è che li faceva solo con noi, che non avevamo l’età per votare). Ogni mattina scendevamo a Gavirate coi maroni fumanti. Il mio vecchio disse che questo Ippopotamo della Lega Lombarda, che però si chiamava Schivazappa, insomma questo signore, scusate il termine, logorroico, si era candidato alle elezioni nelle liste della Lega, che allora era un partito piccolo e accettavano cani e porci, però l’Ippopotamo l’avevano messo in fondo alla lista zoologica per non farlo eleggere, perché col fatto che non stava mai zitto gli si era posizionato sulle balle pure a loro.
A quanto pare lui si amareggiò moltissimo, per questa cosa.
Poi successe che per un paio di giorni l’Ippopotamo sul treno non si era visto più.
Secondo i più maligni fra noi si era suicidato per quella storia delle elezioni.
Il secondo giorno, ritornando a casa, vedemmo che sul ponte sopra la provinciale c’era dipinta con della vernice verde la scritta LEGA LOMBA, e io dissi che l’Ippopotamo era cascato giù mentre scriveva, e tutti risero come matti.
Proprio in quel momento, per la prima volta da quando lo conoscevo, mi dispiacque di averlo chiamato Ippopotamo, perché in fondo era anche lui un essere umano che viveva e che soffriva, e che ogni giorno apriva e chiudeva il suo negozietto senza riuscire a vendere un cazzo, e mi sentii il solo e unico responsabile del fatto che gli altri lo stessero deridendo.
Provai una tale sconosciuta sensazione di tenerezza e pietà, che credetti che una qualche lacrima mi stesse per sgorgare a tradimento da dietro una palpebra.
Sperai anche che dal ponte non fosse caduto nessuno.
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