Si verifica un suicidio al giorno – in Italia – tra i disoccupati. Emerge dal rapporto “Il suicidio in Italia ai tempi della crisi. Caratteristiche, evoluzioni e tendenze” stilato dall’Eures negli scorsi giorni. Per non parlare delle situazioni borderline di chi ricorre agli psicofarmaci, o torna a vivere dai genitori, o non esce più.
Noi, disoccupati e morti viventi
di Emiliano Fittipaldi
Chi si butta sugli psicofarmaci. Chi torna a vivere dai genitori. Chi non esce più di casa. E chi tenta il suicidio. La mancanza di lavoro è un veleno per milioni di italiani. Ecco le loro storie
Chi perde il lavoro qualche volta impazzisce. Comincia a prendere pasticche, capita pure che s’ammazzi. L’ultima volta è successo un mese fa, quando Gaetano Privitera, 39 anni, s’è lanciato nel porticciolo di Ognina a Catania legato alla cintura di sicurezza della sua Opel. “E’ meglio vivere poco ma bene, che a lungo e male”, ha scritto su Facebook dopo la chiusura del suo supermercato.I casi di suicidio dall’inizio della depressione non si contano. Sono partite Iva, impiegati, operai, piccoli imprenditori: la crisi, per alcuni, ha funzionato da livella. Lo scorso luglio Paolo Iacconi di Lucca ha ucciso i suoi ex principali prima di farla finita (“Non ce la faceva più con il mutuo”, dice la sorella), a ottobre s’è tolto la vita un operaio di Castellammare di Stabia, città che da anni vive il declino dei cantieri navali della Fincantieri. Dopo cinque giorni è toccato a un ragazzo di Ostuni: laureato in economia e commercio, aveva perso il posto ottenuto a fatica in un call center. Era emigrato al Nord e s’è ucciso tornando in Puglia, lanciandosi dal finestrino dell’espresso Bolzano-Lecce. Qualche tempo prima Giovanni La Greca, nato a Sciacca, s’era dato fuoco con la benzina. Stessa identica scelta fatta da Nicola Cenzabella di Asti, 62 anni, e dal ventenne Riccardo La Mantia che a Torino s’è bruciato davanti alla ditta appena aperta la busta con la lettera di licenziamento. Per lo stesso motivo dieci anni prima anche suo padre decise di morire abbracciando le fiamme. La storia di Pasquale e Gabriele Parecchia, padre e figlio, è finita in una breve di cronaca nei giornali di Teramo. Litigavano sempre, il ragazzo era disoccupato da troppo tempo. Si sono azzuffati un’ultima volta lo scorso 5 febbraio, quando Gabriele non ci ha più visto e ha accoltellato il padre. Subito dopo ha fatto harakiri.
Lunedì al sole
Perdere il lavoro o non trovarlo nemmeno è un’esperienza che coinvolge ormai milioni di persone. Per fortuna, raramente finisce in tragedia. Ma nell’Italia tornata a tassi di disoccupazione in doppia cifra (Bankitalia ha corretto al rialzo i dati Istat portando il tasso reale all’11 per cento), il fenomeno dei senza lavoro sta diventando socialmente devastante. Dall’aprile 2007 hanno perso il posto in media 460 persone ogni giorno. In pratica, ha chiuso un’impresa da decine di milioni di fatturato ogni 24 ore. Oggi le persone che vivono senza volerlo una “vita sospesa” alla ricerca costante di un nuovo impiego sono oltre due milioni. Un numero a cui Mario Draghi invita ad aggiungere gli “invisibili”, talmente demotivati che non cercano nemmeno più, e i cassintegrati. Un popolo costretto a casa sparso in tutte le regioni d’Italia: le file alle agenzie specializzate sono spuntate anche nei luoghi dove guadagnarsi la pagnotta non è mai stata una chimera.
“L’Espresso” ha ascoltato decine di storie. I tratti comuni sono molti, ma ai colloqui con i responsabili delle risorse umane s’affollano persone diversissime tra loro. Come differenti sono le reazioni al minimo comun denominatore che li definisce, nelle statistiche, “persone in cerca di occupazione”. Qualcuno s’ammazza, è vero, altri decidono di cambiare vita. I laureati più bravi emigrano all’estero, al Sud molte donne seguono un vecchio consiglio di Silvio Berlusconi e si sposano.
Alcuni fanno cose che mai avrebbero pensato di fare prima, come le operaie messe in cassa integrazione dalla Omsa di Faenza, la storica fabbrica di calze che sta delocalizzando in Serbia. Hanno deciso di organizzare spettacoli di protesta contro i padroni e per imparare a recitare si sono iscritte a corsi di teatro. Molti hanno modificato il solito bioritmo: soprattutto i più giovani, che si svegliano più tardi che possono e vanno a letto tardissimo. I più anziani, quelli abituati a timbrare il cartellino da trent’anni, sono quelli che si deprimono prima. A una settimana dal licenziamento raddoppiano le ore passate davanti alla televisione e parlano continuamente del lavoro che non c’è più. “Come se snocciolare i ricordi potesse farli tornare indietro nel tempo, alla catena di montaggio o nel cubicolo dell’ufficio che hanno trasformato, nel loro immaginario, in un paradiso terrestre”, spiega la sociologa Chiara Saraceno citando vecchi studi sulle tute blu della Fiat: “Non mi stupirei se passassero il tempo a gironzolare davanti ai cancelli della fabbrica”.
I dirigenti con gli stipendi più alti sono tra i più umiliati, perché per rimettersi sul mercato devono abbassare enormemente le proprie pretese e concorrere con i giovani ed “economici” cococo.In tanti spiegano di essere costretti a prendere nota di ogni centesimo che esce di casa, operazione ossessiva ma necessaria per chi vuole arrivare a fine mese. Altri almeno all’apparenza la prendono con filosofia, trasformando tutta la settimana in un’unica, lunghissima domenica. I “lunedì al sole”, così Javier Bardem chiamava l’alienante far niente a cui era obbligato il suo personaggio in un film sulla deindustrializzazione di Vigo, la città spagnola che alla fine del secolo scorso ha smantellato i suoi cantieri navali. Gli storici segnalano che in Italia la mancanza di lavoro è sempre stata un elemento strutturale, innanzitutto nel Mezzogiorno. Ma è la prima volta dagli anni Sessanta che il fenomeno colpisce fasce enormi delle generazioni giovani (per l’Istat un under 24 su tre è a spasso: un record assoluto tra i Paesi più sviluppati) e zone tradizionalmente immuni al virus della disoccupazione. Come Torino, dove il tasso dei senza lavoro è più che raddoppiato, alcune città dell’Emilia e realtà produttive come Biella, Lucca e Imperia.
Tutti a casa
Partiamo dal Veneto. Patria delle partite Iva e della piccola imprenditoria. Nel regno di Luca Zaia quattro anni fa a cercare un posto erano in 73 mila, ora sono 129 mila. Hanno chiuso centinaia di ditte individuali e microimprese, e persino mestieri un tempo sicuri sono stati travolti dalla crisi. Andrea S. (chiede l’anonimato), 43 anni, era un informatore scientifico, un impiegato laureato assunto da una ditta farmaceutica per trattare con i medici di base: in Italia erano 35 mila nel 2007, ora sono stati tagliati del 30 per cento. “Il nostro è un settore protetto, ma gli azionisti volevano profitti a due cifre, noi eravamo sacrificabili. Oggi lavoro a cottimo, in genere sono occupato due giorni a settimana. Gli altri resto con le mani in mano. La mia vita è un’attesa continua: l’attesa che il telefonino squilli. Ma lo sa che ho comprato dei videogiochi per ammazzare il tempo? La Wii mi diverte moltissimo, ora comprerò la Playstation perché i giochi, quelli d’avventura, durano di più”.
Anche a Parma non se la passano benissimo. Fino a qualche anno fa in Emilia-Romagna trovare un disoccupato era come scovare un ago in un pagliaio. Ma rispetto al 2007 il tasso di disoccupazione è raddoppiato, e i senza lavoro hanno cominciato ad affollare i bar e le agenzie di collocamento. Pure Gianluca Fiorucci, maturità classica e inglese perfetto, è finito senza accorgersene tra gli 8 mila nomi segnalati dalle liste della disoccupazione della città. “Vengo da Gorizia, mi sono trasferito per seguire un grande amore. Ho trovato subito lavoro come tecnico di controllo per un’azienda che lavorava per la Tetrapack. Stipendio da 1.100 euro al mese, sembra poco ma stavo come un pascià”. Lo stabilimento è stato trasferito dopo un anno e mezzo, e il contratto non è stato rinnovato. Gianluca ha alternato lavori interinali con lunghi periodi ai giardinetti. “Sono un disoccupato di serie A, lo scriva, perché l’indennità per adesso mi permette di mangiare”. Il lavoro nero si rifiuta di accettarlo, “è una questione di principio. La mia giornata tipo? Colazione alle 10, poi tre-quattro ore su Internet per leggere gli annunci su siti specializzati come Infojob e simili. Il problema è aggredire di petto il tempo morto del pomeriggio. Io cerco di fare cose che mi gratifichino: quindi leggo, anche un libro ogni due giorni. E cucino: l’unico aspetto che la mia ragazza trova positivo da quando mi hanno cacciato”. Difficile che esca in giro a spassarsela: Parma è una città cara, le cene fuori sono un’utopia, i cinema idem. “Chiedere una mano a tua madre, bucare le scadenze delle bollette, dover vendere una macchina, cambiare casa perché non puoi più pagare l’affitto. Psicologicamente è dura, lo stress può offuscarti la mente”.
Per Marzio Bargagli, tra i più attenti studiosi delle dinamiche sociali del mercato del lavoro, le storie di Andrea e Gianluca indicano che bisogna andare oltre i tassi dell’Istat. “Ho parlato con i ricercatori dell’Istituto nazionale di statistica, mi hanno detto che s’aspettavano un aumento superiore della disoccupazione. In realtà il fenomeno è più articolato”. La crisi, infatti, ha ridotto anche le ore di lavoro giornaliero. “E’ capitato ai precari e ai lavoratori autonomi. A volte occupati per mezza giornata, o ancora meno. Lavoratori di mattina, disoccupati il pomeriggio: io la chiamo la cassa integrazione delle partite Iva, che ovviamente non è coperta dai sussidi pubblici”. La Saraceno, invece, mette in risalto l’importanza della famiglia, unico vero strumento di welfare rimasto a disposizione di chi ha perso tutto: “L’assenza delle politiche pubbliche è evidente. Lo Stato non solo offre pochissime protezioni, ma le strategie per ri-orientare i disoccupati sono ridicole.I corsi di formazione si sono dimostrati un pannicello caldo utile nel breve a contenere la rabbia, ma che alla fine genera solo nuova frustrazione”. Il governo e il ministro dell’Economia sono sul banco degli imputati. “Qualche settimana fa Giulio Tremonti ha invitato i ragazzi a non essere schizzinosi e ad accettare i lavori più umili che fanno gli immigrati”, ragiona la professoressa: “Vorrei vedere lui o Brunetta mandare loro figlio laureato e masterizzato a raccogliere mele e pomodori a pochi euro al giorno”. Che le cose non funzionino a dovere è dimostrato anche dal fallimento della riforma delle agenzie del lavoro. Se la Borsa Lavoro Nazionale è un progetto naufragato dopo investimenti milionari, spulciando i dati dell’Isfol e del ministero del Lavoro si scopre che grazie ai Centri pubblici per l’impiego ha trovato un posto solo il 3,8 per cento dei disoccupati. Un numero risibile, visto che nei vecchi uffici di collocamento sono impiegati ben 12 mila persone, che costano ai contribuenti più di 400 milioni di euro l’anno si stipendi.
Spostiamoci in Toscana. Qui il tasso di disoccupazione maschile dal 2007 al 2010 è quasi raddoppiato. Aldo Marsili, 56 anni, è tra i 350 dipendenti lasciati a casa dalla Eaton di Massa Carrara, una multinazionale americana specializzata in componenti meccanici ed elettronici. “Facevo punterie per motori dal 1986, e guadagnavo 1.250 euro al mese. A ottobre 2008 capimmo che c’era qualcosa che non andava. I capi non ci pressavano più, ci regalavano permessi, è arrivato a sorpresa un premio di produzione. Infatti, hanno chiuso poche settimane dopo”. A seguire, la solita drammatica trafila: la cassa integrazione, le proteste in piazza e le manganellate con la polizia, il licenziamento definitivo. Marsili è un toscanaccio che non si lascia buttar giù facilmente. In tasca ha pochi soldi, ma ha il vantaggio di non avere né un mutuo ne figli da mantenere. “Il fatto è che dopo una vita passata a rompermi la schiena in mezzo mondo, dall’Iran agli Emirati Arabi, non sono abituato a star con le mani in mano. Il giudizio degli altri, non lo nego, mi pesa da morire, anche perché quando vado ai colloqui mi vedono e si mettono a ridere. Sono troppo vecchio, e troppo poco specializzato”. Aldo elenca il decalogo del disoccupato tutto d’un fiato. “Compro le sigarette che costano meno. Lascio sempre l’auto in garage. Leggo i giornali sperando che annuncino l’apertura di nuove aziende. Porto in giro mia madre. Poi un po’ di jogging. Qualche donna quando capita. Una birra con gli ex colleghi. La sera tardi scrivo un romanzo sulla mia vita . L’intitolerò “Il libico”. Sono nato a Tripoli, io”.
Medioevo meridionale
Al Sud, ragiona ancora Barbagli, la solidarietà informale è più forte che al Nord. “I disoccupati meridionali si sentono meno squalificati, meno devianti di quelli milanesi”. Al Nord riorganizzare daccapo il proprio tempo è più faticoso, visto che (quasi) tutti quelli che conosci sono in ufficio. Nel Mezzogiorno perdere il lavoro non è un’eccezione, ma la regola. “Paradossalmente sono più integrati, è vero. Solo a Napoli potevano inventarsi un’associazione chiamata Disoccupati Organizzati”, annota la Saraceno: “Senza dimenticare che lì la vita costa molto meno. Ma la rete di protezione sociale rischia di trasformarsi in una trappola. Le risorse disponibili per tentare il riscatto sono poche: così, se è probabile che passata la crisi al Nord si tornerà in ufficio, al Sud sarà molto più difficile”. Santo Ferrara, 56 anni, licenziato “per giusta causa” a pochissimi anni dalla pensione, lo sa bene. Lavorava alla Magneti Marelli di Pomigliano, città che da anni vive la crisi dello stabilimento della Fiat come una spada di Damocle. “La mia vita è finita nel 2008, quando ho perso il lavoro. Mi hanno accusato di aver marcato il cartellino mentre ero fuori. Balle. Ora non prendo stipendio e ho 36 mila euro di debiti sul groppone”.
Tra il popolo dei disoccupati c’è pure chi sembra spassarsela. A 15 chilometri dall’appartamento di Sante, a Napoli, c’è un locale che si chiama Perditempo. Nomen omen, dicevano i latini: qui s’incontrano tutte le sere della settimana decine di sfaccendati dei quartieri bene. Lucia Sinna, laureata in Giurisprudenza e frequentatrice dei bar della movida, li racconta così. “Sono disoccupati alla “Moretti”. Se gli domandi “che fai?”, ti rispondono come in “Ecce Bombo”: giro, vedo gente, mi muovo, faccio cose. In realtà non fanno nulla. Sono nobilastri, figli di professionisti o professori universitari che s’atteggiano a fotografi, registi, attori, stilisti e scrittori. Fingono di essere tranquilli, sognano il successo, ma la depressione è sempre in agguato. Dormono fino a mezzogiorno, stanno tutto il giorno davanti al computer, un caffè con gli amici dopo pranzo, in estate un tuffo a Marechiaro o in qualche piscina di amici danarosi. Di fatto sono mantenuti dai genitori. A Napoli sono migliaia, si trovano ovunque”.
La Saraceno invita subito a non fare generalizzazioni. I “disoccupati volontari”, o i “bamboccioni” come li chiamava Tommaso Padoa-Schioppa esisteranno pure, ma sono una piccola, insignificante minoranza. “Il fenomeno su cui i media dovrebbero battere è la tragedia delle donne del Sud, costrette a casa da tassi di occupazione bassissimi, medioevali”. In effetti in Campania e Calabria quasi una su cinque è a spasso. E il dato è sottostimato: sono centinaia di migliaia quelle che non cercano più e scompaiono dalle tabelle Istat. “Ma qui le donne sono tra le più fortunate. Possono contare su altre identità, come quella di madre e donna di casa”, dice candidamente Carla Di Bari, nata a Cosenza 35 anni fa, una laurea in filosofia inseguita per anni e una figlia appena nata che dà senso alla sua vita. “E’ vero, faccio la casalinga e la moglie per “ripiego”, ma non invidio mio fratello, un ingegnere emigrato a Varese che a 40 anni suonati non trova uno straccio di contratto”, rivela la ragazza sorridendo amara: “Lei saprà che l’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Ecco, qui quella frase solenne suona più o meno come una barzelletta”.
fonti : http://espresso.repubblica.it/dettaglio/noi-disoccupati-e-morti-viventi/2152051//3http://societa.liquida.it/focus/2011/05/26/rapporto-eures-la-disoccupazione-causa-un-suicidio-al-giorno-in-italia/