Gli ascolti hanno premiato la miniserie di Rai1 Adriano Olivetti – La forza di un sogno con Luca Zingaretti. La prima puntata ha ottenuto infatti 6 milioni 117 mila telespettatori e uno share del 22.93% mentre la seconda ha raggiunto 6 milioni 345 mila e uno share del 24.68%. Anche la critica è stata generosa nei confronti della fiction prodotta da Rai Fiction e Casanova Multimedia di Luca Barbareschi. Aldo Grasso, sul Corriere della Sera, ha scritto che di fronte a questa fiction l’attenzione critica è ambivalente:
Da una parte, bisogna essere grati alla Rai di aver riproposto la figura, tanto cruciale quanto negletta, di un imprenditore di successo, il più rivoluzionario industriale della storia italiana, un raffinato intellettuale, un grande e innovativo editore (le Edizioni di Comunità), uno sfortunato uomo politico schiacciato dalle due egemonie del dopoguerra (Dc e Pci): la sua impresa è stata un’avventura culturale ma più ancora il sogno di un’azienda che, accanto alle macchine per scrivere e calcolare, produceva progetti civili, idee di libertà e di responsabilità. Dall’altra, non si può non notare come la miniserie, prodotta da Rai Fiction e Casanova Multimedia, per la regia di Michele Soavi, riabbracci ancora una volta il filone agiografico, con inevitabili esiti di superficialità (il grande successo commerciale della Olivetti non è dovuto solo alla Lettera 22; prima ci sono gli straordinari calcolatori, diffusi in tutto il mondo). La fiction inizia, fatalmente, dalla morte per poi dispiegarsi in un lungo flashback. È il 1960, la Olivetti ha messo a punto il primo calcolatore elettronico a transistor (padre del pc) e Adriano muore d’infarto su un treno che lo sta portando in Svizzera. Luca Zingaretti è molto bravo ma forse non era l’attore più adatto, dovendosi trascinare il peso di Montalbano; anche se rendere conto delle sfumature psicologiche di Olivetti è quasi impossibile. Il contrastato rapporto con la moglie Paola Levi (Francesca Cavallin) scade spesso in una sorta di ordinario triangolo d’amore (il Carlo che si sente nominare è Carlo Levi). Meglio la storia con la seconda moglie Grazia (Elena Radonicich).
Alessandra Comazzi su La Stampa ha lodato lo sceneggiato, che è risultato ben fatto e ben recitato:
Invece per la critica televisiva di Europa Quotidiano Stefania Carini è la solita fiction italiana che non riesce mai a trasmettere quello che dovrebbe essere il cuore di ogni vita esemplare. Infatti non basta un trucco posticcio per ridare il senso di un personaggio e di un’epoca:A Washington. Di lì comincia «Adriano Olivetti, la forza di un sogno», in onda lunedì e l’altra sera su Raiuno. Poi la scena si sposta a Ivrea e lì mi si stringe il cuore, avevo paura di dover risentire cadenze pseudo-piemontesi e accenti penosi: e invece, sollievo. Il regista Michele Soavi ha fatto recitare i suoi attori in italiano corretto. Punto e basta. Non importa dove fosse ambientato lo sceneggiato. Tanto non sappiamo esattamente come parlassero Adriano Olivetti, e il padre Camillo e la moglie Paola e tutti gli altri: noi siamo in Italia, una buona fiction si distingue anche perché rispetta il paese e la lingua, e rispettando la lingua rispetta l’identità. Non è una questione tecnica. Gli ascolti hanno premiato: oltre 6 milioni 100 mila spettatori lunedì, 6 milioni 345 mila martedì, 25 per cento di share. Poi c’era la storia. Una grande storia, narrata con tempi larghi e riflessivi, e con interpreti azzeccati, attori veri di scuola e d’Accademia, Luca Zingaretti, Massimo Poggio, Stefania Rocca, Francesca Cavallin, Francesco Pannofino e gli altri, davvero un’oasi di buon gusto. E fantascienza imprenditoriale. Vedi gli imprenditori di ora, ricordi quello che desiderava Olivetti, una fabbrica come modello, come stile di vita che producesse libertà e bellezza, per essere felici tutti, e ti par di sognare. Infatti, lo lasciarono solo.
È la sindrome del parrucchino. Che affligge non solo Luca Zingaretti, ma la fiction italiana tutta. È andato in onda il biopic dedicato alla grande figura di Adriano Olivetti. Il problema al solito è che al di là di fornire qualche informazione base, e molte vicende romanzate (Stefania Rocca è spia americana con madre di Cuneo che tiene d’occhio il nostro eroe prima della Nsa), la fiction non riesce mai a trasmettere quello che dovrebbe essere il cuore di ogni vita esemplare. Ovvero perché fu così esemplare. Peccato: il tutto si riduce a un bigino, eppure si può dare di più. Non basta elencarne le tappe significative di una vita, partendo al solito dalla morte e tornando indietro a flashback fino all’infanzia. Non basta per mettere in scena la sfida alla società, la ricerca dell’identità, il proprio voler fare superando i limiti. La figura di Olivetti si riduce troppo spesso a qualche discorsetto e alla sua bonarietà con gli operai. I flashback poi dovrebbero illuminare la distanza tra momenti diversi della vita: più è grande, meglio ci emoziona il percorso che ha intrapreso il nostro personaggio per diventare quello per cui sarà ricordato dalla Storia. Mettere in scena morte/infanzia è la banalità delle banalità, tipica di ogni agiografia nostrana. E poi non è tutta la vita che va raccontata, si può scegliere un momento chiave della stessa, così da darne il senso in profondità. Qui c’è troppo poco fare, e troppe pene di cuore. Alla fine è solo un elenco piatto di scene e scenette, senza mai alcuna vera emozione. È la sindrome della parrucchino: pensare che un trucco posticcio possa ridare il senso di un personaggio e di un’epoca. E invece conta la scrittura, sempre. Lo sa anche Zingaretti: quando i suoi personaggi sono scrittura di qualità, e dunque senza parrucchino (Montalbano, Perlasca), il nostro ha ben altra carica espressiva.