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imparate magari in una brevissima gavetta.
Ci sono registi che già al primo film fanno qualcosa di importante, di "solido", qualcosa che nasce già riuscito, sicuro, nessun rischio.
Ce ne sono tantissimi, specie se vengono già dallo stesso mondo, ex attori etc...
E' come se un bambino nascesse con tutto già apparecchiato per lui, una stabilità, un futuro, una programmazione, le giuste persone intorno.
E poi ci sono registi che nascono da soli, dal nulla, da una passione, da un esperimento, da un tentativo.
Come bambini nati in una catapecchia che poi piano piano, vivendo, riusciranno a sostituire quella catapecchia con altro.
Lars Von Trier è della seconda schiera, di quelli nati da soli, senza dottori super specialisti vicino e senza una villa ad attenderlo. E quando nasci da solo di casini ne fai tanti.
I primi tre film di Trier, la mitica trilogia "E" sull'Europa (L'elemento del crimine, Epidemic, Europa) non sono grandi film, anzi, si va dal pessimo, Epidemic al migliore, questo, comunque molto lontano da quello che verrà poi.
Ma così è bello nascere, dal nulla, sperimentando, imparando, provando, costruendoti.
Nascere dentro Hollywood non serve, c'è gente che lo fa benissimo, vedi Ben Affleck, ma ti mancherà sempre qualcosa, ti mancheranno gli errori degli esordi, ti mancherà la voglia di divertirsi e di rischiare, ti mancherà l'ebrezza del migliorare e raggiungere la vetta partendo dalla valle.
Trier parte da una valle che più personale non si può, una valle di pazzia e artigianalità, una valle che comunque porterà metaforicamente con lui in vetta perchè quella pazzia primordiale, quella tecnica primordiale e personale in qualche modo sempre sarà.
Europa è così, è un esperimento visivo, è quello che in nuce Von Trier sarà poi.
La storia poco varrà, è vero, ma ritrovarsi in questo universo magico che contrappone il bianco e nero a rare stille di colore, e che lo stesso bianco e nero lo tratta ogni volta in maniera differente, con una grana sempre diversa che ci sembra di passare di continuo dal cinema anni 20 a quello anni 60, passando per i 40 e per gli 80, un film che ha tutte le epoche dentro, che usa fondali da paleocinema e scenografie da espressionismo tedesco. E giochi visivi, e immagini che si sovrappongono in campi diversi (ad esempio visi in primo piano con sullo sfondo visi giganteschi), colonna sonora che passa dal disturbante (magnifica quella del prologo sulle rotaie) a musichette hollywoodiane anni 50. E che pur nella serietà dell'argomento può prendersi in giro con un esame di verifica sul treno proprio nel momento più drammatico, con lui con delle mutande in testa proprio quando la tensione è al massimo.
E tutto questo si può fare quando non sei nessuno o quando sei "troppo" qualcuno.
E la storia poco varrà nell'intreccio ma analizzare questa Germania appena uscita con le ossa rotte dalla seconda guerra, questa Germania scossa, in parte vogliosa di mantenere una propria identità, in parte ubbidiente suddito degli americani, questa Germania attanagliata dal senso di colpa per cui l'imprenditore dopo l'abbraccio finto e organizzato con l'ebreo non può che suicidarsi (e che bellezza quello spruzzo di sangue nella vasca in bianco e nero) , uno stato che non c'è più e i cui abitanti non sanno nè da dove vengono nè dove andranno, questa miseria, questa distruzione, ma anche questa rassegnazione per cui va bene festeggiare il Natale in una chiesa in cui piove neve dentro, la Germania dell'appena dopo, quella della balia di qualcosa, quella che ancora i Lupi Mannari pensano di essere in guerra, ma per quanto poi?
E l'ipnosi che sta alla base del film cos'è?
E' l'immergersi in una memoria personale e collettiva, è l'immergersi per capire in profondità quello che è successo e quello che accadrà, è l'immergersi per poi morire nei ricordi e nel futuro troppo legato ai ricordi, in un vagone pieno d'acqua da cui non puoi uscire, se sei tedesco non puoi uscire, questa è la Germania, questa è l'Europa del 1945, un vagone deragliato pieno d'acqua in cui morire.
( voto 7,5)
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