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Recintare la conoscenza (parte 1)

Creato il 03 aprile 2015 da Allocco @allocco_info

Chi riceve un’idea da me,
ricava conoscenza senza diminuire la mia;
come chi accende la sua candela con la mia
riceve luce senza lasciarmi al buio.”
Thomas Jefferson

Fino alle soglie della modernità, le comunità rurali potevano godere di una serie di diritti consuetudinari su alcune terre ai margini dei grandi latifondi: pascoli per il bestiame, campi da coltivare o boschi per ottenere il legname, fiumi o foreste necessari per la sussistenza. Queste terre erano considerate proprietà comune ed erano gestite da organi di autogoverno. Dalla fine del Quattrocento i proprietari fondiari inglesi iniziarono a recintare e privatizzare queste terre, e le comunità che vi abitavano furono spossessate dei loro tradizionali mezzi di produzione e sostentamento. Iniziò quel lungo e feroce processo definito “enclousures of the common”. L’erosione della proprietà comune della terra servì per fornire riserve di materie prime nel periodo della rivoluzione industriale, privatizzando i patrimoni comuni, espropriando le basi di sussistenza, contribuendo al progresso industriale e all’accumulazione di capitale.

Le enlcausures non sono da relegare al passato, perché oggi stiamo assistendo a nuove e sofisticate forme di recinzione che si realizzano con il land grabbing, attraverso la privatizzazione dell’acqua o con i brevetti sul vivente e sulla biodiversità: una nuova versione delle prime recinzioni delle terre britanniche. Le nuove recinzioni, però, hanno la particolarità di non riguardare più soltanto le risorse, ma si estendono anche al patrimonio culturale dell’umanità, perfino alla conoscenza.

La proprietà intellettuale ha l’obiettivo di tutelare i frutti dell’inventiva e dell’ingegno umani, evitando che qualcuno realizzi atti di pirateria. Oggi, paradossalmente, proprio grazie all’uso sconsiderato di questi diritti, si realizzano veri e propri furti di conoscenza ai danni delle comunità: circa il 94% dei farmaci di origine vegetale in vendita, ad esempio, contiene un composto già utilizzato dalla medicina tradizionale per scopi terapeutici. Ciò origina da una ricerca etnografica su una determinata popolazione indigena, che permette di individuare una pratica terapeutica efficace. Si rileva che una pianta contenga una qualche sostanza con effetti benefici; l’impresa farmaceutica, a questo punto, prosegue internalizzando le informazioni utili sulla pratica tradizionale e ricava il principio attivo della pianta volto a sintetizzarne la molecola; quest’ultima, infine, viene brevettata, prodotta e messa sul mercato. Tuttavia, alla base di questo processo c’è il secolare lavoro svolto da comunità indigene, le quali selezionano accuratamente le specie botaniche utili. Senza questo sforzo il farmaco forse non sarebbe mai esistito. L’appropriazione del sapere indigeno che impiega la biodiversità non è un atto creativo, né sul piano intellettuale – perché l’innovazione già esiste – né sul piano materiale – perché le caratteristiche per il brevetto non sono invenzioni dal momento che già esistono in natura. Tale pratica è stata definita “biopirateria” e indica l’appropriazione di conoscenze o risorse genetiche di una comunità indigena o di una popolazione agricola tradizionale, con lo scopo di assicurarsi il diritto d’uso produttivo e commerciale, per mezzo di brevettazioni o procedure simili. Le conoscenze che le culture tradizionali hanno da sempre condiviso all’interno delle comunità adesso vivono un ribaltamento della concezione comunitaria, essendo trasformate in merce da vendere. Così, le sementi, il primo anello della catena alimentare, che per i contadini rappresentano un accumulo di storia, tradizioni e saperi tramandati da generazioni. Infatti, se un’impresa è titolare di un brevetto può rivendicare l’invenzione della semente, pianta o vegetale escludendo chiunque dal diritto di produrla, venderla, utilizzarla o distribuirla: in questo modo, il libero scambio di semi fra contadini diventa un “furto di proprietà intellettuale”. Sembra evidente che le leggi di brevettazione occidentali siano inadeguate perché effettivamente non monitorano i sistemi di conoscenza (escludendo dai brevetti le innovazioni esistenti) ma originano dalla necessità di difendere i monopoli. La privatizzazione della biodiversità e dei saperi comuni è l’ultimo atto di un processo di recinzione che ha avuto inizio con la privatizzazione delle terre e delle foreste, che poi riguardò le risorse idriche e adesso affetta le idee e la biodiversità, recintati dalla proprietà intellettuale.

Il motore della fase attuale di sviluppo capitalistico è rappresentato proprio dai beni immateriali, vittime di un’appropriazione esclusiva. Così, i processi di virtualizzazione che permettono di rendere utilizzabile il sapere indipendentemente dal supporto materiale, fanno si che il costo di produzione non coincida più con il costo di riproduzione. Pensiamo alla progettazione di un nuovo software: una volta che una prima unità è stata realizzata, il costo di riproduzione delle sue copie tende a zero, evidenziando che i beni immateriali non sono soggetti a scarsità, potendo essere riprodotti in numero indefinito a costi irrisori. I beni immateriali come le produzioni intellettuali, le invenzioni, le non soffrono l’usura del tempo e dell’uso e grazie al libero accesso consentono di favorire la circolazione di informazioni e ad aumentare la possibilità per la collettività di incrementare le proprie conoscenze. Si può parlare di “anti-rival good”, cioè beni dei quali non c’è congestione o uso eccessivo, ma l’utilità aumenta con l’aumentare degli utenti che li utilizzano (un’interoperabilità che ha contraddistinto prima il telefono e poi internet). Di conseguenza, il valore di scambio della conoscenza tende a zero, indipendentemente dal suo valore d’uso.

Ma in che modo il capitale valorizza questo genere di “merce”? Attraverso la creazione artificiale della scarsità, cioè di nuove recinzioni che consentono al capitale di appropriarsi della conoscenza, impedendo che essa diventi un patrimonio comune. La “predazione di esternalità”, ovvero l’appropriazione gratuita dei frutti della cooperazione sociale, avviene attraverso brevetti, copyright, tasse d’accesso, cioè le nuove enclosures, che oggi colpiscono anche i beni immateriali. Oggi il capitale non deve più avere sotto di sé solo il lavoro dell’operaio ma anche un insieme eterogeneo di capacità e competenze che impropriamente potremmo definire “conoscenza”.

La proprietà intellettuale, per certi versi, rappresenta lo strumento di esproprio della conoscenza accumulatasi nel corso del tempo, per altri - dato il carattere cognitivo del lavoro - l’esclusiva a favore del datore di lavoro rappresenta la tecnica dominante di estrazione del plusvalore. È noto che nell’investimento iniziale effettuato dal capitalista risiede la ratio che, sviluppata all’ennesima potenza, spiega il trend di estensione della tutela d’autore a software, banche dati, disegni industriali, che poco hanno a che vedere con le opere di ingegno tradizionali. I colossi effettuano grandi investimenti a proprio rischio solo in vista della garanzia di esclusività di un successivo sfruttamento commerciale del prodotto che ne risulta, ma la presente “modalità privata” della produzione di innovazioni difficilmente mina le basi stesse delle politica pubblica di ricerca, che fallisce la sua missione se “segrega” la conoscenza, non assicurando l’accesso e la condivisione dei saperi. Basti pensare alla ricerca in campo farmaceutico, dove il sistema di brevetti e blocchi di sbarramento rallenta il processo di comprensione delle malattie e la ricerca scientifica, facendo in modo che uno scienziato debba verificare che una determinata molecola non sia protetta da brevetti per poterla studiare.

La conoscenza comune – ovvero tutte le forme di sapere conseguite attraverso l’esperienza o lo studio, espresso in forma di cultura locale, scientifica, ecc., includendo anche le opere creative come la musica, le arti visive e il teatro – è il risultato della cooperazione e degli sforzi di generazioni di filosofi, artisti, letterati, scienziati, culture indigene e tradizionali che l’hanno creata. I paradossi e le difficoltà venutisi a creare nel corso del tempo hanno generato una visione alternativa in termini sociali, economici ed istituzionali, che possa andare oltre la contrapposizione tra pubblico/privato; l’idea, cioè, di una sostanziale “aspirazione alla riappropriazione” di ciò che è comune attraverso la partecipazione delle comunità alla gestione delle risorse materiali così come alla fruizione della conoscenza. La volontà è di rivendicare il carattere comune di creazioni intellettuali, dei geni, dell’immagine dei beni, dei saperi tradizionali e delle tradizioni popolari.

Nel campo dell’immateriale, forme di resistenza all’appropriazione esclusiva (dall’accesso alle risorse cognitive in rete alla tutela delle culture indigene) sono realizzate anche grazie all’utilizzo degli stessi strumenti messi a disposizione dal diritto della proprietà intellettuale, con il risultato di far apparire obsoleto l’uso del brevetto.

Fine prima parte.

Fonti :

Lo snodo della rete – G. Rizza, 2006

Oltre il pubblico e il privato – M.R. Marella, 2012

Copyleft e open content. L’altra faccia del copyright – S. Aliprandi, 2005

Il Bene Comune della Terra – V. Shiva, 2006

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