Il mio primo maestro in Livorno fu un certo Giuseppe Taddeini che teneva scuola in casa sua, in uno stabile di Borgo Reale, poco sotto alla mia abitazione, verso il centro di Livorno e di fronte alla Farmacia Pediani, la quale aveva l’insegna, se bene ricordo, di Mercurio, e dove conveniva la sera un piccolo conciliabolo di rivoluzionari, fra i quali mio padre che teneva cattedra di filippiche, di imprecazioni, di minaccie e di epigrammi.
Livorno – Bagni Pancaldi nel 1930
[…] Lasciata la scuola del Taddeini, fui messo in quella dei Barnabiti di S. Sebastiano, e lì stetti fino alla nostra partenza da Livorno e imparai qualche cosa. […] Nello stesso tempo frequentavo lo studio del pittore Giuseppe Baldini dove fui messo per suo desiderio dopo che una sera, nella farmacia Pediani, mi ebbe visto scarabocchiare piante e animali. […] Feci progressi nel disegno perchè realmente ci avevo attitudine; ma più se ne avvantaggiò la mia salute, perchè col Baldini e in compagnia di altri quattro o sei ragazzetti, nella bella stagione facevamo lunghe passeggiate quasi ogni giorno, e nell’estate, lungo il mare fra il Marzocco e il Calambrone, con bagni lunghi lunghi e con svoltoloni che non finivano mai fra la rena di quella spiaggia solitaria.
[…] Qualche volta ci menava a pescare lungo i fossi più remoti della città dove, con piccolissime canne e piccolissimi ami, ciascuno di noi prendeva tanti crògnoli da portare a casa la sera abbondante e deliziosa frittura.
Livorno – Calambrone, Canale dei Navicelli agli inizi del 900
[…] E com’era bella e ricca a quei tempi Livorno! La sua vantaggiosa posizione sulle coste tirrene, l’ampiezza e la comodità dei suoi bacini, il privilegio del porto franco, l’energica operosità dei suoi cittadini e le diverse condizioni politiche e commerciali dell’Italia a quei giorni, ne avevano fatto lo scalo più importante del Mediterraneo. Le vie per e dall’Egitto, da Tunisi, dall’Algeria, dal Mar Nero e dall’estremo Oriente erano affollate di navi di tutti i tonnellaggi e di tutte le bandiere; la sua darsena pareva un canneto di alberi e una ragna di gomene, la ricchezza vi si riversava da tutte le parti del mondo, e le vie della città risuonavano di voci d’ogni paese e brillavano di costumi d’ogni foggia, d’ogni stoffa e d’ogni colore. Ripensando alle impressioni in me suscitate da quella vista, mi par di sentirmi come se avessi fatto il giro del mondo, meno la spesa, i pericoli e i disagi.
[…] Come accade nei luoghi di mare, spesso sentivo parlare di salvataggi di persone in pericolo d’annegare. Sentivo descrizioni drammatiche del fatto ed elogi alla intrepidezza dei salvatori. Esaltandomi a quei racconti, mi entrò nella testa la smania di farmi anch’io un nome celebre in quel genere di operazioni, tanto più che già conoscevo l’azione eroica di Garibaldi, del quale si cominciava allora a parlare con infuocato entusiasmo, il quale, nel porto di Nizza, aveva salvato, da bambino, un suo coetaneo. Volevo anch’io salvare qualcuno e ne cercavo l’occasione con ardore, fidando sulla mia sveltezza nel nuoto, che era davvero superiore alla mia età. Avevo allora nove anni circa.
Una sera, condotto con alcuni compagni dal pittore Baldini, alla solita pesca dei crògnoli lungo un fosso remoto della città, me ne stavo tutto intento alla fruttifera occupazione, quando sento a poca distanza strilli disperati di donne e di bambini. Corro a vedere di che si tratta e vedo un povero piccino di cinque o sei anni, cascato nell’acqua, e intorno a lui, lungo il muro dello scalo, una turba di donne scapigliate e di ragazzi che gli porgevano cenci e pertiche perchè vi si agguantasse; e gli facevano coraggio, con gran confusione di parole e di voci. Appena arrivo lì, spicco un lancio, e giù nell’acqua accanto al bambino che mi si avviticchiò subito alle gambe come un polpo. L’occasione mi si era presentata: anch’io, come Garibaldi, avevo compiuto il mio eroismo e, con la rapidità del pensiero, già pregustavo le gioie della celebrità, dopo quelle intime del mio cuore, credendo davvero che senza di me quel bambino sarebbe affogato. Ma le cose non stavano precisamente come me l’ero figurate. Quelle che credevo grida di spavento erano risate, la tragedia era una farsa, e invece del trionfo mi toccò una baiata perchè dove era cascato il bambino v’erano appena due palmi d’acqua e altrettanti di fango nero e puzzolente nel quale eravamo rimasti impaniati tutti e due. Un robusto giovanotto ci tirò su di peso lerci e grondanti, mentre dalla spalletta di sopra, dove era affacciata gente, venivano risate fragorose e apostrofi non troppo lusinghiere per il mio valore:
«Ah bimbo, l’hai fatta bona la ‘nzuppa oggi, eh?
«Nun ti bastava ‘r fritto, e hai voluto anco l’umido!
«E lavati le cianche, sai bimbo, ‘n se no colli sculaccioni di stasera, tu’ ma’ s’insudicia tutte le mane».
E così di seguito, altre delizie di questo genere, ma anche più espressive ed energiche per crudità di realismo popolare. Me n’andai via a capo basso, svergognato davanti a tutti, ma non dinanzi alla mia coscienza perchè quando spiccai il salto nell’acqua io non sapevo in verità se c’era fonda due palmi o due metri.
(Renato Fucini, A Livorno (dal 1849 al 1853) – Foglie al vento)