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Resti la mia guerra persa

Da Paride

Gentile signora,
le comunico con la presente che il vecchio Andò le ha lasciato un messaggio, accuratamente sigillato, in una busta postale. Nessuno (a parte me) sa’ cosa contenga.
In fronte reca il suo nome, Vittoria.
Martino era allora cieco, dovette dettarmela personalmente quattro anni fa’, fui io stessa a scriverla e a conservarla.
Ora che è morto, seppur convinta non fosse sua ultima intenzione farvela recapitare, eccola qui allegata.
Spero vorrà perdonarmi se m’arrogo un diritto che non mi spetta.
Il suo fu un dolore riservato.
Con affetto
La direttrice

                                                                                                                          Sarah Maria Bronner

 

Malinconia, ecco cosa provo!
Siedo stanco su di una roccia scomoda, il passato, e sono quattro giorni che le nubi coprono il sole. Caduta la pioggia, anche il cortile è diventato impraticabile, costretto al mio respiratore su di una sedia che non smetto d’odiare, tutto ciò che posso fare ora è guardare fuori queste infinite pozze d’acqua mitragliate dall’alto e pensare…
So che sai di cosa sto parlando, quindi frenerò la lingua, e morderò le labbra nel caso il di più dovesse far sue le mie parole.
Una serie di azioni, un insieme di movimenti articolati, asincronici, pur tuttavia interconnessi tra loro. Emozioni e pensieri, desideri e bisogni, consigli, riserbo, e volere, volere a venderne, sappi che in questo teatrino non c’eravamo solo noi. E avrei voluto maledire ogni mia paura, ma c’erano anche le tue, sarebbe quindi stato del tutto inutile.
Andavo via quel giorno, ricordo ancora il giornalaio alla stazione dei tram di Catania, andavo solo, era quel che volevo, niente di personale, colpa di nessuno, ero giovane, e da uomo chiedevo al mondo un’opportunità, dimostrare a me stesso di meritarmi il “lei”, ed oggi, da pessimo matematico, dubito ancora del risultato, senza perdere tempo e forze in inutili riesami.
Ho visto Milano, vissuto a Torino, poi Berlino, per tre anni minatore, finché non conobbi un tale di nome Gruener, che mi introdusse nel giornalismo, dapprima come semplice tutto fare, poi segretario, infine giornalista di inchiesta, una gavetta durata otto anni.
Finivo in Francia in quell’estate dell’ottantadue, mentre tu prendevi marito; quel presuntuoso d’un Rattanzi, uomo la cui spina dorsale non ha eguali, certo in peggio.
Ricordo i nostri carteggi, al come cercai di persuaderti, al come cercavi di convincermi a lasciar tutto e ritornare a casa, la mia, la tua, che sarebbe forse un giorno potuta essere nostra.
Ma tuo padre, i suoi bisogni di tranquillità, il tempo macinato come chicchi di caffè, non era facile, in più diffidavi di me, chiedevi un gesto forte mentre io, sotto assedio, lottavo ferito in quella che sarebbe stata la guerra del secolo, ed il colpo più duro me lo infligesti tu.
Da allora ho venduto cara la pelle, senza troppe voglie, senza quel bisogno, il più delle volte fuori luogo.
Ho preferito a quell’impreciso qualcosa il nulla, una vita all’insegna del lavoro, coltivando il mio giardino, i miei interessi nutriti ogni giorno, viaggiando, mettendomi alla prova con discreto successo.
Sono stato in Ciad dove ho criticato il governo Francese, nell’ottantacinque in Mozambico, una guerra civile da 1,050,000 morti, poi ancora in Sudan nell’ottantanove, ed in fine nel novantadue la Bosnia.
Conobbi un italiano, di nome Almerigo, ammazzato da un “proiettile vagante” a Caia mentre con la cinepresa stava filmando una battaglia fra i miliziani del fronte Renamo e quelli fedeli al governo in carica. Un’amicizia durata cinque anni quella tra me e Grizl. Almerigo moriva ed io ero lì, in Mozambico, lo guardavo boccheggiare come un pesce, soffocato dal suo stesso sangue. Ne rimasi sconvolto. Aveva una foto, come tutti del resto, tutti, tranne me, immeritevole di avere il tuo santino addosso, anche se, mentendo a me stesso, ti portavo nel cuore. Il suo sangue rappreso al ciglio di quella strada polverosa, fu la prima volta per me, così distante da casa e se da un lato la sua morte mi spingeva alla paura, al terrore e a riflessioni varie sulla vita, sul tempo, e sull’onere di questa nostra spesa, dall’altro mi portava a Sarajevo. La Bosnia, ma che dico!! l’adriatico intero! Tutto in tumulto, tutto pazzia, dissoluzione, era l’imbarbarimento di qualunque equilibrio sociale. Sadismo, crimini e tante mani imbrattate. Morivano gli uomini come bestie, morivano per niente, forse un tozzo di pane.
Ormai ero un altro uomo, e me ne rendevo conto quando le bombe ci piovevano in testa, me ne rendevo conto, quando guardando indietro andavo avanti alla cieca, per poi finire col non muovermi più, se per movimento intendiamo uno spostamento direzionale, nessuno spazio, nessun punto “a” a punto “b” ma oltre. Ecco, cara Vittoria, non esistevo più in quel mondo che tu immagini chiudendo gli occhi e che confermi riaprendoli, non era più così che io lo percepivo. Dentro il vuoto, fuori il nulla, mentre intorno solo un’insieme scoordinato di ingranaggi ferrosi, arrugginiti, il caos. Avrei potuto conoscerlo e capirlo, anche prevederlo, se la mia mente avesse potuto comprenderne ed individuarne ogni sua variabile.
Cooperai per un breve periodo con un tizio di nome Guido, Guido Puletti, mio amato amico, che nell’inverno del ‘novantatre intensificava i suoi viaggi in Bosnia finalizzandoli ad un progetto di solidarietà destinato alle città di Vitez e di Zvidovici.
Il suo convoglio fu assalito il 29 maggio di quell’anno, vicino a Gornji Vakuf , dai “Berretti Verdi” del comandante “Paraga”, Hanefija Prijc. Me lo ammazzarono (di nuovo) come un cane…
fucilato in una raduna lì vicino. Tornavo in Germania privo di forze poco dopo lo scoppio della guerra in Kossovo a seguito della morte di Gruener, anche lui freddato insieme al suo fotografo ed al suo interprete da un cecchino a sud di Pristina, lo riportai alla moglie.
Glie lo dovevo…
in fondo era grazie a lui che dalla miniera ero riuscito ad arrivare fino a lì.
Decisi così di smetterla con le inchieste. Era il ‘novantanove, avevo quasi quarant’anni.
Da allora ne sono passati dodici, di cui gli ultimi tre qui, in questo noioso centro di cure.
Mi trattano bene, chiedono un occhio della testa per le loro inutili terapie. La svizzera!!!
Non so quanto mi resti ancora da vivere, pare che i miei arti si siano gravemente indeboliti a causa degli sforzi fatti in passato, i nervi sono andati, e su quella strada marciano anche i polmoni. Non ci vorrà molto. Il dottore crede non sia tutta opera della guerra, sono infatti sintomi molto comuni tra minatori. Ironico, non trovi!? Alla fine mi hanno fermato…

avrei molto ancora da dire, ma quarantanni mi dividono dalle tue labbra.
La mia coscienza, segnata dal nostro incontro, ferita, non ha mai smesso di sanguinare per te.
Ti amo, t’ho sempre amata, ma ora è tardi, non servirebbe, sarebbe inutile e…
Mi dispiace.
Resti la mia guerra persa.
Tuo

Martino Andò

 


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