Magazine Ciclismo
Riccardo Riccò e il comandante Massoud. Il Cobra di Formigine e il Leone del Panjshir. Il corridore che il mondo del ciclismo vorrebbe dimenticare, quasi non fosse mai esistito, e il condottiero della resistenza contro l’Unione sovietica prima e i talebani poi, eroe popolare afghano. Ad unire queste due figure estreme e apparentemente inconciliabili ci ha pensato un intellettuale, non un uomo di sport dai
confini segnati da un campo da gioco o da partenza e arrivo di tappa, ma uno scrittore italo-francese da sempre schierato con i dissidenti e le rivoluzioni popolari di tutto il pianeta. Si chiama Salvatore Lombardo, è un profondo conoscitore del mondo arabo e, appunto, vanta un’amicizia con Massoud che definisce «un poeta in armi che pareva uscito da una canzone di Bob Dylan, proprio come Riccò».
Il giudizio schietto di Lombardo, discendente di un’antica famiglia nobiliare, sfida qualsiasi codice etico, è un pugno in faccia ai farisei del pensiero unico, una schioppettata al conformismo: «Per me - scandisce - Riccò si può paragonare a un D’Annunzio o ad un James Dean». Modenese come l’adorato Vasco Rossi, da quando l’antidoping gli ha affibbiato 12 anni di squalifica, Riccò gira su una bici nera, prevalentemente vestito di nero e ogni volta che apre bocca o si pronuncia sui social network divide, fa incazzare, si piglia un sacco di aggettivi: in effetti su quella maglietta che fino a qualche anno fa gli sponsor si contendevano a peso d’oro e che oggi schifano come il virus Ebola potrebbe farci scrivere “Me ne frego” come il motto del Vate; o “Little bastard”, come l’incisione sulla Porsche del divo di Gioventù bruciata. Oppure va bene proprio così, il nero assoluto, senza parole: “Non abbiamo più niente da dire, dobbiamo solo vomitare”, canta il rocker di Zocca.
Che parlino gli altri, allora. Specie quelli come Lombardo che hanno conosciuto e vissuto vicende umane che vanno al di là dell’ematocrito, dei Watt e delle ruote ad altro profilo: «Riccardo non è solo un campione maledetto, è un’icona della post modernità - insiste -. Uno che vive la sua vita con sempre presente un senti- mento di malinconia. E che ha un certo fascino per la morte». Coerentemente Lombardo, più di trenta opere in curriculum e - poteva essere altrimenti? - una passionaccia per Coppi e Bartali, ha intitolato il suo libro su Riccò, in uscita in questi giorni Oltralpe, «Funérailles en jaune», Funerali in giallo. Un po’ macabro, sostiene qualcuno, ma d’altronde il simbolo degli arditi e dei Legionari di Fiume non era proprio un teschio con un pugnale in bocca? «E’ un romanzo romantico e barocco - sostiene l’autore - sulla vita drammatica di un uomo molto diverso da come viene presentato sui giornali: per lui la bici è un modo di vivere e di combattere, non solo uno sport». Un guerriero, un Giovanni dalle Bandenere nato nell’epoca e nel posto sbagliati: «L’Italia - conclude Lombardo - vuole degli eroi ma non accetta il diritto di questi eroi alla differenza».
da «La Voce di Romagna» a firma Emanuele Conti
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