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Ricordi di scuola

Creato il 16 agosto 2014 da Albix

Ricordi di scuolaSiamo ormai  abituati a considerare la scuola come quell’istituzione gestita dallo Stato (in competizione con pochi privati autorizzati) che ci accompagna, attraverso l’esame di maturità, sino all’università (dispersione scolastica permettendo).

Eppure la scuola non è tutta lì.

Anzi, dobbiamo ricordare che in un passato non tanto remoto, la scuola statale era del tutto inesistente.

Senza scomodare  Socrate e Platone, che intrattenevano i loro discenti all’ombra dei colonnati dell’antica Atene, e i loro epigoni, trasferiti in massa a conquistare , come guide e precettori, i figli dei loro conquistatori Romani, ci è facile osservare, con un piccolo sforzo di memoria storica, come  l’istruzione fosse, sino a poco più di un secolo addietro,  soprattutto  in mano ai diversi ordini religiosi.

Eppure la scuola, ancora oggi, non è soltanto quella istituzionale dei banchi di scuola.

Per chi come me, purtroppo o per fortuna, è già nei terzi “anta”, tornano alla memoria le vecchie botteghe artigianali dove i giovani che, per le più svariate ragioni,  non fossero risultati idonei agli studi religiosi ovvero non fossero, a loro volta, figli di medici, avvocati o ingegneri, si formavano per la vita e per il lavoro.

Erano queste botteghe artigianali delle vere e proprie scuole di vita.

Nelle barberie, officine meccaniche, sellerie, calzolerie,  sartorie, nei pastifici, nei cantieri edili e in tutti gli spazi produttivi disseminati lungo lo stivale si apprendeva la dura arte dell’ubbidienza, della discrezione, dell’apprendere, prima  osservando, poi creando con le proprie mani il proprio futuro.

Della bottega di orologiaio di mio padre ho dei ricordi legati soprattutto all’estate.

Mio padre mi ci portava perché aveva paura che, finita la scuola istituzionale, io finissi con il frequentare i vagabondi del paese, i bastasoni,  i perditempo,  i perdigiorno o i calandroni, come li chiamava lui, a seconda del giorno e dell’umore.

E poi, mi ripeteva, “impara l’arte e mettila da parte!”.

Insomma, volente o nolente, le mie estati anziché odorare di fiume e di campo, odoravano di grasso di iena e di olio di lince (mio padre, soprattutto davanti ai clienti,  chiamava in questo modo misterioso, certi solventi che si usavano per la pulizia e per la lubrificazione degli orologi e dei suoi innumerevoli ingranaggi, principalmente perché era un uomo dalla spiccata fantasia (gli piaceva infatti inventare; a suo modo era infatti un artista, ma io questo l’ho capito dopo);  io credo però che il motivo fosse anche legato alla segretezza e alla gelosia che ogni capo bottega ha dell’ arte che vi si svolge  e degli ingredienti che vi si usano.

Quando i clienti, entrando nella bottega (il cui si accesso era consentito soltanto ai clienti più affezionati, che si si spingevano oltre il banco di vendita) lo salutavano con l’appellativo di “Maestro” io, nonostante mi rodesse il fatto di essere costretto a frequentare la bottega, mi sentivo orgoglioso del mio papà!

Mio padre a quel saluto sollevava lo sguardo dall’orologio al quale si stava dedicando, senza togliersi neppure la lente d’ingrandimento, che lui calzava nell’occhio destro, incastrandola con abilità nell’orbita oculare ossea.

Non amava affatto interrompere il suo lavoro (fatto di massima concentrazione e ferrea precisione) e sul suo volto si stampava sempre un’aria di severa interrogazione (io, se fossi stato bravo in disegno, avrei potuto, senza tema di sbagliare, disegnargli una nuvoletta, all’altezza della fronte, con su scritto “chi sarà mai questo rompicoglioni?”).

Ovviamente rispondeva con una domanda di stile, della serie “salute a lei, mi dica!”, o qualcosa del genere. Mi dava sempre l’impressione  che scendesse da un altro pianeta, a confrontarsi sulla terra con degli esseri inferiori che osavano interrompere il suo viaggio interstellare.

Devo dire per completezza che mio padre non amava neppure staccarsi dal banco da lavoro per recarsi al banco di vendita; e se non c’era un affare importante in vista (magari già avviato) preferiva delegare me o qualche altro fratello, così lui poteva dedicarsi ai suoi amati orologi e ai suoi misteriosi ingranaggi. Io ero ben contento, al contrario di lui, di servire la clientela che entrava nel negozio per acquistare, fosse anche per sostituire il cinturino dell’orologio o il moschettone di chiusura della catenina o del bracciale. Il mio massimo era servire qualche avvenente ragazza con cui mio padre si sarebbe scazzato da morire (dato che diceva che le donne erano sempre troppo indecise e gli facevano perdere del tempo per lui prezioso).

L’apprendistato dell’orologiaio iniziava con  un anno intero passato a guardare il “maestro” lavorare. Mio padre era un uomo di poche spiegazioni: occorreva osservare ed intuire. Non amava neppure le domande, che spezzavano la sua concentrazione.

Quel  primo anno anno serviva anche per imparare il nome dei solventi (oltre al grasso di iena e all’olio di lince, c’erano diversi acidi, come quello che serviva a staccare la spirale del bilanciere) e il nome dei diversi attrezzi (la pinzetta finissima, i cacciaviti, numerati da 1 a 10, la tronchesina, gli alesatori, gli oliatori, l’estrattore, i punzoni, numerati da 1 a 50 e così via; c’erano anche pinze e tenaglie ma mio padre le usava raramente, perché diceva, ridendo, che quelli erano attrezzi più adatti agli scarpari che agli orologiai); inoltre occorreva essere capaci di trovare, velocemente, il pezzo che eventualmente fosse caduto al maestro durante la lavorazione (e lì capivi  l’importanza di fissare il lavoro con lo sguardo; una distrazione in quella circostanza, oltre che una sgridata o, peggio, un manrovescio, significava non sapere in quale direzione indirizzare la propria ricerca; e se si trattava, ad esempio, di una molletta di calendario o di una qualsiasi altra molletta, erano guai sul serio) .

Dopo il primo anno l’apprendista poteva cominciare a pulire qualche sveglia, privata dello scappamento dal maestro oppure da qualche apprendista più anziano e comunque sotto stretta sorveglianza di qualcuno più anziano in bottega.

Dopo due anni l’apprendista poteva cominciare a smontare e a rimontare un EB 700 oppure un AS 1130. Si trattava dei due macchinari più semplici (il primo senza rubini mentre il secondo ne montava ben 17!), allora commercializzati sotto diversi marchi (mio padre trattava gli svizzeri  Imperios, che montavano anche l’AS 1130,  indistruttibili e senza tempo); i macchinari su cui all’inizio si esercitavano i praticanti però,  non appartenevano ai clienti ma erano di orologi che appartenevano alla bottega (magari erano stati versati in occasione dell’acquisto di un orologio nuovo; oppure erano appartenuti a clienti che per non pagare il costo della riparazione avevano preferito rinunciare all’orologio; e ciò nonostante mio padre fosse molto meticoloso e preciso nei suoi preventivi, sconsigliando sempre la riparazione quando il costo fosse eccessivo rispetto al valore dell’orologio).

Se questi primi montaggi andavano in porto positivamente, allora il praticante era ammesso alla sostituzione dell’asse del bilanciere o dell’albero di carica (con o senza coroncina) e della molla di carica sugli orologi dei clienti; ma sempre supervisionato dal maestro o da altro praticante più anziano.

Insomma, se tutto andava per il verso giusto, al decimo anno, forse, eri in grado di riparare i “cinque linee” (cioè gli orologi da donna più minuscoli allora in commercio, gli orologi automatici, quelli a calendario e via, via, i cronografi, con e senza fasi lunari, e i pendoli, il cui apice era costituito, a quel tempo, da quelli che battevano il quarto d’ora e avevano delle icone mobili che comparivano nelle diverse fasi del giorno.

Io mi fermai al montaggio e rimontaggio degli AS 1130 (anche se più tardi, ormai laureando e collaboratore commerciante di mio padre, mi riscattai superando a pieni voti un corso per la manutenzione dei nuovi orologi analogici al quarzo, organizzato dalla prestigiosa casa svizzera LONGINES; serbo ancora con orgoglio il diploma che mi venne rilasciato a fine corso)

Per mia  fortuna dopo qualche anno dalla sfortunata campagna di Sicilia (su cui ho già intrattenuto il lettore in qualcuna delle puntate precedenti) mio padre ebbe un’altra delle sue coraggiose iniziative e pensò bene di comprare un locale commerciale di oltre centocinquanta nel centro di Cagliari per farvi una gioielleria con tutti i crismi. Anche in questa circostanza la testa di ponte fu costituita da mia madre (col suo ruolo di mamma), io (col ruolo di vice-capofamiglia) e tutti e cinque i miei fratelli più piccoli.

Anche questa nuova avventura non andò bene ma debbo dire, per onestà, che questa volta mio padre aveva visto giusto, ma noi figli non fummo all’altezza delle sue grandi visioni di allargamento e di ingrandimento dell’azienda paterna.  E perciò, rivenduto degnamente il locale commerciale, i miei fratelli preferirono espandersi nei paesi viciniori all’azienda fondata da mio padre.

Ma questo fa parte già di un’altra storia.

 


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