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Riflessione sul libro “La Cena” di Herman Koch

Creato il 21 luglio 2010 da Sulromanzo
Riflessione sul libro “La Cena” di Herman KochDi Pierfrancesco Matarazzo
La passeggiata e la cena riflettendo su "La cena" di Herman Koch
La prima cosa che sentirete sarà l’odore.Qualcosa di pungente, una sberla per i vostri sensi rattrappiti dall’afa.Ci metterete un po’ prima di identificarne la provenienza. Il muretto al lato del quale state camminando? Un animale? Forse qualche sacchetto della spazzatura sventrato da un pool di ratti organizzati? Marcio, urina, sudore, frullati insieme ad un po’ di sangue rappreso, probabilmente retaggio di un tempo di lotte, ormai sepolto dietro una barba troppo lunga per svelare un’intenzione. Disteso sotto i portici, dritto come un fuso, senza scarpe, i piedi cotti dal sole, le palme più scure della pelle. I capelli bianchi si litigano con la barba rossiccia gli ultimi frammenti di umanità che insistono a sgattaiolare nel mondo. Sì, è una persona. Come voi, come me, anzi no, diversa. “Al di fuori dal contesto sociale e civile”. È così che molti la definirebbero, i più educati, quelli che fanno finta di non provare ribrezzo, terrore al pensiero di entrare in contatto con quello che una volta era un uomo. Guardate gli altri. La maggior parte cambierà lato della strada, farà dietrofront ed imboccherà il portico successivo, sperando di essere più fortunato. In pochi, i più coraggiosi, continueranno a camminare, facendo finta di niente e per questo si sentiranno più giusti e cortesi degli altri. Ignorare non vuol dire forse essere migliori?Oggi sì. 
Il vostro sguardo, incauto, tornerà su quell’uomo. Si starà muovendo. Cambiando lato per evitare le piaghe da decubito, penserete. Non emetterà un fiato, non vuole attirare l’attenzione, non è come gli altri che chiedono l’elemosina sfoggiando lo sguardo più rammaricato che posseggono. Quasi fosse un peccato chiedere. Quasi fosse un peccato mostrarsi. O forse così è più facile instillare la colpa nel passante, che non è lì a chiedere, che può continuare a fare shopping a testa alta; che quella sera tornerà a casa a spiare vite fasulle in scatole sempre più sottili. Ecco, si è girato faccia al muro. Anche voi vi sentite più sereni. Potete continuare a camminare, senza domandarvi perché. È stupido farlo. Ci hanno insegnato a scappare, ad ignorare e ci riusciamo benissimo. Poi un rumore dietro di voi. Sordo e prolungato, come un sacchetto di bottiglie vuote, poggiato delicatamente all’interno di un bidone per non ferirsi e poi colpito con un bastone, dove non può più far male a nessuno. Dove anche il rumore dei vetri infranti è ovattato, dove scaricare la propria rabbia è permesso, anzi è giusto, sano, liberatorio. Allora si colpisce e colpisce, sempre più veloci, rabbiosi, gioendo della distruzione, della fine di un oggetto, che sarebbe potuto durare più di voi. Dei ragazzi stanno ridendo. Indossano pantaloni larghi su scarpe costose, magliette attillate, su spalle ancora acerbe, visi gentili, dai lineamenti delicati, bambini ansiosi di essere adulti, potenti. Hanno accerchiato l’uomo per terra e aspettano. Hanno colpito con forza, saranno riusciti a rompere qualche osso? Questa la domanda che sembra stazionare nelle loro menti, ancora pervase dall’adrenalina del gesto. In pieno giorno, in centro, uno dei tre avrà proposto agli altri: “Scommettiamo che nessuno ci ferma? Scommettiamo che riesco a rompergli le ossa con qualche calcio ben assestato?” “Dai, smettila!” avrà urlato un altro. C’è sempre qualcuno in un gruppo che ha paura. Paura e non pietà. Paura e non senso di giustizia. Solo paura. Allora basterà un semplice: “Te la fai sotto. Sei il solito, forse non dovresti più stare con noi.” E la paura sarà scavalcata. Saranno tutti lì, a dare calci e a provare piacere. Voi nel frattempo avrete allungato il passo, sarà tardi. È sempre tardi per qualcosa. Userete frasi silenti come: “Dove siamo arrivati!” o “I giovani sono ormai senza controllo, ma dov’è la forza pubblica quando serve?”Ancora vetri rotti, in lontananza. Il cattivo odore sarà svanito, vi sentirete meglio. Il caldo. Fa sempre troppo caldo. 
Herman Koch, scrittore olandese, autore del romanzo “La cena” (edizioni Neri Pozza – 2010), controverso best seller sociale, ci porta nei meandri della mente umana, alla ricerca del “giusto”. Scopriremo che è decisamente un concetto relativo. Koch ci narra la storia di due famiglie benestanti nella civile, rispettosa e solidale Olanda. Lì dove la diversità è un valore formale e formalizzato, dove la politica vince grazie ai programmi d’integrazione dei “meno fortunati” e dove il figlio del futuro premier, insieme a suo cugino, una sera pesta a sangue e poi uccide una barbona, il cui peccato è di trovarsi davanti al bancomat dove loro, sedicenni annoiati e con pochi desideri, stanno per ritirare un po’ di soldi dal loro conto. La cena a cui si riferisce Koch è quella che affronteranno i genitori dei due ragazzi, domandandosi il perché di una violenza che sembra scoppiata dalla troppa pace. Non c’è giudizio, non ci può essere. Il libro è incentrato sulla linea di confine fra desiderio di violenza e sua attuazione, dimostrandoci quanto sia sfumata. Il testo che avete letto, nasce da un pomeriggio afoso, a passeggio per la città, iniettando stralci di romanzo nel reale e accorgendosi di quanto il verosimile sia già presente.

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