Magazine Talenti

Righe, righine e inchiostro (mica tanto) simpatico

Da Miwako
Eppure, mi dico, non dovrebbe essere così difficile.
Tutt'altro.
Vuoi fare una cosa? La fai.
Non la vuoi fare? Non la fai.
Semplice.
Lineare.
Lapalissiano.
Fanculo i pro e i contro e fanculo i pensieri di contorno. Dritti al sodo.
E invece, uno non calcola le millemila intersezioni, gli innumerevoli sottopassi, le probabili deviazioni che incontrerà il pensiero prima di diventare azione, o prima di non diventarlo.
Non che sia un novità assoluta. Ne avevo parlato anche qui , ad esempio.
Mi viene in mente la terza elementare. Quelle righe, una grande sopra, una piccola intermedia, una grande sotto, mi hanno sempre destabilizzata un pochino.
Ma  mica erano loro a destabilizzarmi, era il fatto di dover scrivere in quella piccola quando ce n'erano due così ariose sopra e sotto.
Non me ne accorgevo nemmeno. Partivo su quella sottile e, immancabilmente, salivo a quella sovrastante. Sempre. E la maestra G. si arrabbiava. Sempre.
Che mica ero scema io, non si spiegava come mai non riuscissi a stare dentro le righe.
Oggi, guardando a quel periodo, credo di essermi sentita come un mancino forzato a scrivere con la mano destra.
Nemmeno avessi provato a reintrodurre lapide e scalpello, volevo solo scrivere dove c'era più spazio. Il mio, volendo, poteva pure essere un (non consapevole) pensiero logico. E consequenziale alle mie dimensioni. Lì c'è più spazio; io sono più alta, quindi scrivo lì.
A ripensarci ora credo fosse un modo per comunicare qualcosa. Non ho idea di cosa fosse, ma visto che non era legato all'incapacità di comprendere cosa mi venisse richiesto e considerando che ci saranno state, prima e dopo, centinaia di altre cose che ho imparato a fare su commissione senza batter ciglio, non riesco a non pensare che fosse un tentativo inconscio e maldestro di dire qualcosa che non sapevo nemmeno di pensare.
Magari mi sopravvaluto. Magari ero semplicemente incapace di concepire di dover scrivere in quello spazietto angusto, non ero proprio in grado, e dietro non c'era un bel niente.
Che a voler essere pignoli, il pensiero che mi ha riportato a quel momento della mia vita, è stato quello delle sbavature.
Quando scrivi una parola, scivoli via per scrivere quella successiva e la tua mano viene inseguita da una scia scura. Allora provi a tamponare, ma peggiori solo la situazione, ora ci sono pure le tue impronte in calce a sporcare le frasi. E tu che ti stavi pure impegnando a scrivere bene, ti ritrovi a fissare il pastrocchio, tentando di stimare l'entità del danno (cosa che, per l'età, si limitava a un "Quanto si arrabbierà la maestra? Ma chi diavolo ha deciso che la penna cancellabile è illegale in terza? Mmmh, è quasi ora di merenda; speriamo che la mamma si sia ricordata la crostatina.").
E succede lo stesso adesso, anche se non uso più le righe di terza (probabilmente continuerei a non saperlo fare), anche se, volendo, posso scrivere dove mi pare.
Succede che penso che vorrei fare qualcosa, addirittura lo decido, lo inizio, perché voglio o devo (o entrambe) farlo. Poi qualcosa si inceppa, un'infiltrazione d'acqua mette a repentaglio la sicurezza della barca. Non ci faccio caso inizialmente, non la sento, quando me ne accorgo è tardi, il pensiero, l'azione, sono già compromessi.
Ma forse qui la differenza è che, dove prima era totalmente inconsapevole, ora c'è spazio a sufficienza per un microbico dubbio; dove prima non mi accorgevo del momento in cui dalla riga piccola passavo a quella grande, non sapevo nemmeno di averlo pensato, ora c'è un minuscolo parassita che io vedo già, ma non so come fermare. La falla del pensiero, della decisione, ciò che rappresenta l'anello debole, la vedo molto prima che sortisca l'effetto che so avrà sul castello di post-it che sto cercando di tenere in piedi.
E non è come dovrebbe essere, come ho scritto all'inizio.
Non è nè semplice, nè lineare, tantomeno lapalissiano.
Uno deve avere un motivo, dei motivi per fare qualcosa. E pure per non farla.
Motivazioni intrinseche ed estrinseche.
'Sti cazzi.
Nel mio caso, credo si possa iniziare a parlare di demotivazioni intrinseche.
Per cui io decido di fare qualcosa, pur avendo già accolto il pensiero che una determinata cosa potrà mandare tutto a puttane.
Perché lo faccio?
Potrei decidere di fare una cosa, punto. Stop.
Invece, decido, comincio, e contemplo l'eventualità del fallimento.
Comodo così.
Brava.
In questo modo, da un lato ti pari le chiappe perché avevi messo in conto che qualcosa potesse andare storto (dicesi anche mettere le mani avanti), dall'altro ti deludi due volte perché sia ciò che avevi deciso, sia ciò cui hai permesso di interferire con suddetta decisione, sono cose messe in piedi da te.
Si chiamerà mica autosabotaggio tutta 'sta roba che ho singhiozzato qui tra le decisioni e la terza elementare?
E pensare che, al momento, questo è un atteggiamento che sto ripetendo in un ambito della mia vita così insulso e primario, che potrei perfino evitare di ragionarci sopra ore intere nel tentativo di decifrarne le dinamiche sottostanti. Non perché sia privo di significato, ma perché sembra (sembra e basta, non diciamolo a voce troppo alta) che per gli ambiti più corposi, più importanti, io sia riuscita a domare la cosa.
E' che non accetto che una cosa futile ma basilare come quella in questione sia regolata da meccanismi così complessi e malsani.
Ciò che dovrebbe essere più difficile (perchè obiettivamente meno realizzabile) non lo è, almeno non nella mia testa; ciò che potrebbe essere davvero intuitivo, istintivo, viene inspiegabilmente deviato, corrotto, caricato di altre cose.
Non so, è come se fossi certa di poter volare, convinta di aver scoperto come si fa, e dubitassi di poter camminare, pur sapendo che lo so fare.
Allora, forse, io necessito di attuare questi meccanismi perché fanno parte del mio equilibrio; avendo trovato qualcosa che ha annullato l'eventualità del fallimento da ambiti ci un certo spessore, ho comunque il bisogno di mantenere questa serie di atteggiamenti in ambiti più primordiali per continuare ad avere un (seppur sbagliato e forse mica tanto salutare) equilibrio.
Per nulla complicato direi.
Ma un libretto d'istruzioni no, eh?
Una Treccani autoreferenziale?
Mi accontenterei anche di un bignami delle mie assurdità.
Saggio e sempiterno Ebby, non me ne volere, i neuroni stanotte sono puledri selvatici che sgambettano indomiti senza controllo alcuno nelle praterie delle mie manie. E' già tanto che sia riuscita a rimanere lontana dallo specifico dei dettagli.

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :