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Ritorno a Londra

Creato il 04 aprile 2012 da Albix

Ritorno a LondraAnche nella mia compagnia lavoravano diversi di questi “east londoners”.

Uno di loro, che ritrovai al lavoro nei gelati, era Bob, che mi aveva fatto da istruttore, alcuni anni prima, nel breve periodo di tirocinio precedente il lavoro vero e proprio: soprattutto pulizia e manutenzione della macchina, e preparazione dei gelati e delle bibite.

Era un tipo di media statura, con capelli chiari, pettinati a spazzola con un accenno di riga al centro, ed occhi, pure di colore chiaro, molto vispi e mobili sui lineamenti del volto, reso un poco irregolare da due incisivi superiori lievemente pronunciati. Al lobo sinistro portava, con molta naturalezza, un piccolo orecchino tondo in oro, moda,  questa, che sui nostri lidi era ancora di là da venire.

Il suo abbigliamento era al contempo semplice ma ben curato. Una particolare attenzione mostrava tuttavia soprattutto nelle scarpe e nelle magliette, sulle quali  ultime,  solitamente linde ed in tinta chiara, spiccavano immancabili, numerose catenine d’oro, diverse per foggia e per misura, come da noi usano le donne sulle camicette chiare, quando fanno rivivere  certi costumi d’epoca.
Bob era decisamente simpatico. Molto inquieto, stava sempre in giro nei punti vendita viciniori, fossero di colleghi gelatai o di fruttivendoli. Nella sua “pitch”, che era solitamente la più redditizia, aveva durante la stagione alta uno o più aiutanti su cui egli scaricava, in maniera disinvolta e bonaria, la maggior parte del peso lavorativo. Quando gli capitava di stare alla distribuzione, nelle ore di punta, a volte faceva delle cose bizzarre. Ad esempio piantava una fila ordinata e lunghissima di clienti, che dalla macchina dei gelati giungeva talvolta sino al bordo esterno del marciapiede, per andarsene a telefonare.

E nel far ciò, allora, mostrava ai clienti una monetina da dieci pence , prelevata dalla cassettina degli spiccioli, tenendola in alto tra il pollice e l’indice della mano sinistra e sibilando, con il labbro superiore lievemente arricciato sui denti, la fatidica frase: ”I’ll be back in  a minute”, che se ne pronunciava la metà è dire  anche troppo.

E senz’altre spiegazioni spariva all’interno del negozio con passo svelto mentre io cercavo alla meglio di servire gli avventori, i quali, con olimpica flemma, seguitavano a stare in fila, per niente risentiti dal repentino e ingiustificato forfait del mio socio; e se al suo rientro la coda era stata sbrigata mi chiedeva cortesemente, accompagnandosi con un gesto significativo dell’indice sfregato sul pollice,  se avessi delle banconote. E quelle da una sterlina trovavano un’ordinata e rapida sistemazione nelle  tasche del suo grembiule, mentre quelle di taglio superiore venivano sistemate nelle tasche dei pantaloni.

Ma se invece al suo rientro avesse trovato ancora molte persone da servire, cosa che non era affatto infrequente, dato che a Londra, come del resto dappertutto, le file e gli assembramenti richiamano altri curiosi, allora mi chiedeva di farmi da parte tracciando un semicerchio con l’avambraccio sinistro e, afferrati una decina di coni, riusciva a riempirli tutti ruotando la mano abilmente sotto il rubinetto della gelatiera, azionandone contemporaneamente e velocemente la leva con la mano destra e mentre io,  con difficoltà,  ricevevo i gelati nelle mie due mani, per distribuirli, gli avventori, ammirati e riconoscenti, pagavano il prezzo stabilito. E sembrava che avessero la calamita questi clienti, perchè dietro a loro ne arrivavano altri  in crescente numero e lo show di Bob si ripeteva sino a quando  poteva reggere la refrigerazione della macchina. Potenza del suo carisma magnetico. Fu in quel periodo del mio primo noviziato a Londra che cominciai ad amare gli Inglesi.

Se non aveva clienti, invece, leggeva il giornale: The Sun, il Daily Mirror e, soprattutto l’Evening Standard, quotidiano londinese che pubblicava tutto sulle corse dei cavalli, sugli altri avvenimenti sportivi e mondani del giorno, oltre a qualche resoconto di politica locale, e più raramente internazionale, che l’attenta autocensura di quella stampa riteneva utile far conoscere alla gente. Non leggeva nè molto concentrato nè molto a lungo, chè infatti alzava lo sguardo di quando in quando per fischiare o richiamare l’attenzione di qualche vistosa ragazza di passaggio, sulla bontà delle cui forme non sempre concordavamo, e se cercavo di trascinarlo a commentare qualche notizia politica o un argomento di vasta eco sociale,  le sue risposte erano sempre superficiali, quand’anche non evasive. Inizialmente notavo una certa sorpresa nei suoi occhi quando ascoltava attentamente il mio ragionare, ed io non sapevo bene come interpretarla. Con l’andare del tempo, poi, quando prendemmo a frequentarci, qualche volta, fuori dall’orario di lavoro,  cominciai a capire che ai suoi occhi appariva inusuale, o addirittura bizzarro, che un gelataio, e per di più italiano, avesse tempo e modo di occuparsi di argomenti dei quali neanche lui, che pure era inglese e londinese,  riusciva a raccapezzarsi o quantomeno ad interessarsi.

Così, seppure visto in quella veste di fenomeno, un po’ buffo e originale, mi accorsi che il suo atteggiamento nei miei confronti mutava gradatamente, passando dagli iniziali snobismo e indifferenza ad una cordiale, sincera simpatia che io non volli o non seppi trasformare in un’amicizia più profonda, forse anche a causa della mia immaturità e della mia insicurezza.

Sia Bob, sia gli altri rivenditori, tra cui vi erano anche due suoi fratelli e una sorella, avevano lasciato la scuola subito dopo aver adempiuto agli obblighi di frequenza; anzi, molti anche prima di tale termine.
Di natura ribelle e refrattari alle severe regole dei precettori inglesi, avevano preferito la vita libera della strada; senza superiori gerarchici invadenti alle costole, a rimproverare, redarguire, guidare; senza obbligo di forma alcuna (non era infatti evento raro lo scambio di parolacce con qualche cliente troppo esigente o sprovveduto); e con un ‘ottima retribuzione al di sopra dei guadagni medi di operai e impiegati.

Altri venditori della strada erano i giornalai.
Anch’essi provenivano quasi esclusivamente dall’”East London” ma era assai raro trovare tra di loro dei giovani. Lavoravano all’aperto tutto l’anno occupando degli angoli all’uscita delle stazioni metropolitane più importanti, servendosi qualcuno di una semplice scatola metallica entro la quale stavano i giornali, altri di un tavolino con sedia, pure di metallo, e da lì emettevano dei suoni incomprensibili che si confondevano con gli spifferi provenienti dalle viscere della terra, attraverso gli infiniti meandri del metrò;  ed in quei suoni  non riuscivi più a riconoscervi i nomi delle testate dei quotidiani cittadini Evening Standard e l’Evening News, che essi pronunciavano in una forma abbreviata e deformata dall’abitudine, simile al rantolo di una belva ferita,   per attirare l’attenzione dei distratti e frettolosi passeggeri in transito alle imboccature delle gallerie sotterranee.

L’Evening News era in realtà solo una imitazione del più famoso Evening Standard. Quest’ultimo veniva pubblicato in molteplici edizioni dalle sette del mattino sino a tarda sera, con una frequenza di due-tre ore circa. Da un’edizione all’altra cambiava solo la prima pagina che attirava il lettore su notizie eclatanti. Veniva distribuito a tali venditori con una rete di consegna davvero fenomenale. Ad ogni nuova edizione, nell’arco della stessa giornata, si vedeva arrivare il pulmino della società distributrice, con la testata in nero su sfondo giallo, e da lì, con il motore ancora acceso,  vedevi volare uno o più  pacconi di giornali freschi di stampa. L’Evening Standard non aveva una precisa fisionomia politica
( almeno non nel senso che noi italiani diamo a tale espressione) e forse alternava la propria ideologia in sintonia con i partiti che si avvicendavano nella conduzione del massimo organismo amministrativo londinese : “Il Great London Council”.

Tutti i giornalai che andavo via, via conoscendo, mi trasmettevano una strana impressione: quella di avere sempre fatto  quel lavoro lì. Non solo per la   voce rauca che li caratterizzava, ma anche per l’abbigliamento molto trasandato.   Una patina di barba, mai completamente rasata, gli copriva la pelle del viso, rendendoli ancora più bruni di quanto già non lo fossero a causa delle lunghe ore di esposizione a quell’aria malsana.

Mi pareva inoltre che avessero sempre freddo, anche in estate, come se ormai nelle ossa gli fossero  per sempre penetrati l’umidità ed il soffio agghiacciante delle correnti d’aria che li investivano nelle loro improvvisate postazioni di vendita. Indossavano alle mani dei guanti con le punte mozze per poter afferrare agevolmente soldi e giornali e si scaldavano con l’immancabile tazzina di thé al latte che compravano,  per asporto,  dal più vicino snack bar.

A discapito del loro aspetto, che nei giorni di nebbia intensa si fondeva a pennello con il paesaggio circostante, divenendone anzi elemento caratteristico, al pari delle colonne rosse della Royal Mail, delle cabine telefoniche e dei taxi neri, le sensazioni che mi trasmettevano erano però positive. Non dico che fossero allegri, ma gioviali sì.  Una giovialità serena e rassegnata, come se la diffusione degli avvenimenti, londinesi e del mondo intero, contenuti nei loro giornali, li avessero resi impermeabili alle emozioni, ponendoli al di sopra delle vicende umane, quasi fossero degli dei indifferenti e imparziali nei confronti dei loro destini.

Quando mi passavano accanto, lì dove lavoravo, non mancavano mai di solidarizzare con un cenno lieve di intesa,  emettendo al contempo un saluto, costruito più sul suono che sulle parole, del classico veloce interloquire londinese, che dell’originale “are you all right?” salvava soltanto quel sibilo, come del vento che era entrato nei loro corpi,   composto di tre, forse di sole due sillabe,  appena velate da una “erre” già morta in gola ancora prima di uscirne, e una vocale “o” iniziale, lunga e sonora.

Il tranquillo (si fa per dire) tran tran quotidiano di Oxford Street veniva talvolta rotto dall’apparizione improvvisa e quasi sempre fugace degli “smugglers”.
Erano costoro dei lestofanti (manco a dirlo londinesi doc marcati East London) meno malvagi e disonesti di quanto il loro soprannome potesse far presumere, che erano capaci di improvvisare a tamburo battente una vendita di falsi di marca e di paccottiglia autentica,  inscenando per strada una farsa meglio congegnata di una commedia di Goldoni. Agivano di solito in gruppi di quattro,  ognuno dei quali con un ruolo ben preciso.

Arrivavano in un’ora di massima punta (tra le 11,30 e le 16), dopo aver parcheggiato il loro furgone in una delle stradine interne e occupavano un segmento di marciapiede compreso tra due traverse; e mentre i due pali si sistemavano in ciascuna delle due intersezioni, per cui non poteva mai succedere che arrivassero inattesi i due bobbies di pattuglia, gli altri due sistemavano al centro del marciapiede lo scatolone con la merce da vendere (profumi, portafogli, ninnoli, accendini, orologi, bigiotteria, che variava a seconda dei giorni, ma era sempre merce taroccata).

Uno dei due, lo speaker, seduto su una delle scatole di cartone con cui avevano trasportato la loro merce contraffatta, rovesciata a mò di sedile, mentre su un’altra più alta venivano esposti gli oggetti da piazzare, sciorinava qualità e prezzo delle sue merci in quell’incomprensibile dialetto londinese che già di per sè era uno spettacolo impagabile; l’altro, il provocatore, si piazzava dietro il capannello di gente che regolarmente si formava attorno al compare, attratta da quell’improvvisato show e facendosi largo a gomitate, con i soldi in vista tra le dita  sollevate, gridava “…a me tre!”, “ne voglio due!”, “ne prendo quattro”, trascinandosi dietro decine di acquirenti che a volte davano i soldi senza sapere bene neppure che cosa stessero comprando.

Una volta successe che uno dei due pali, accortosi dell’arrivo dei piedi piatti diede l’allarme. Nel giro di cinque secondi, non senza aver prima tranquillizzato gli occasionali clienti sulle loro buone intenzioni, merce, soldi, scatole e malandrini erano già spariti inghiottiti dal vicolo opposto rispetto alla direzione d’arrivo dei poliziotti.
E dopo che questi, completamente ignari, erano spariti alla vista acuta dei pali, nello stesso punto di prima si riformavano banco di vendita e capannello; e occorre aggiungere che l’interruzione giovava non poco agli affari della banda, forse perchè la paura della polizia che i suoi componenti mostravano, vera o falsa che essa fosse, convinceva la gente che l’affare proposto doveva essere di gran lunga vantaggioso. Beata ingenuità degli inglesi e dei  turisti londinesi! Pensare che a mio padre, nella sua attività di orologiaio, sin dal secondo dopoguerra,  portavano a valutare dei finti orologi d’oro che gli scaltri napoletani riuscivano a rifilare agli allocchi di turno, fingendo che fossero refurtiva ricercata dalle forze investigative pubbliche e private sulle tracce dell’ultima rapina del secolo. Anche se la sceneggiata napoletana, come è noto, è alquanto diversa dalla commedia inglese. Ricordo che Bob mi confessò una volta di essersi guadagnato da vivere in quel modo per diverso tempo e di conoscere per essere ragazzi in gamba, quelli che lo praticavano.
…continua…


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