A very nice snack bar
Nel mio posto di lavoro, il lunedì, dopo il riposo domenicale, trovavo sempre un gran casino. Anche quel lunedì, ebbi un bel daffare a rimettere tutto in ordine, come piaceva a me e com’era mio dovere, ed alla fine s’era fatto quasi mezzogiorno.
Se di solito a pranzo pasteggiavo con un ricco panino e un caffellatte, quel giorno, l’abbondante colazione consumata in ufficio mi suggerì di accontentarmi di qualcosa di più leggero.
A Londra trovare uno snack bar dove consumare un pasto veloce a mezzogiorno è quasi più facile di trovare un pub dove tracannarsi una pinta di birra. Sempre che uno non voglia unire le due esigenze e mangiare qualcosa in una Public House o Pub che definirlo si voglia.
Il mio apparato digerente, ad onor del vero, mi ha sempre consigliato di frequentare i Pubs soltanto la sera, evitando tassativamente di consumarvi qualsiasi pasto, soprattutto se sotto forma di piatto caldo. Certi nomi, dall’altisonante eufonia anglosassone, seppure all’apparenza commestibili, possono celare sorprese seriamente sgradevoli, quali, ad esempio, interiora di chissà quale razza animale, che dentro ad involucri di normale pasta sfoglia, si trovano vagamente e approssimativamente cucinati e impastati con vegetali colorati e mollicci, dal sapore indefinibile e dall’odore comunque insostenibile.
Questi snacks, dicevo, sono di norma di proprietà di emigrati italiani, non necessariamente di provenienza meridionale, anzi era più frequente rinvenire dietro ai loro banconi, baristi italiani provenienti dal nord Italia, con emiliani e romagnoli in testa.
Molti di loro avevano lasciato l’Italia a cavallo della Grande Guerra, per sfuggire alla leva obbligatoria prima ed alla miseria poi; altri nel ventennio, a causa del Fascismo e della goffa prepotenza della regia burocrazia, che aveva finito per soccombere definitivamente alla ragion di stato, asservita com’era al perseguimento di fini che oramai prescindevano dall’uomo e trascendevano i suoi bisogni e i suoi diritti individuali, pervenendo a sacrificare, paradossalmente, anche quello della libera iniziativa privata, vera anima ideologica dell’argine che si era selvaggiamente opposto all’occupazione delle fabbriche ed ai disordini di piazza, che furono proprio il preludio alla presa di potere da parte dell’ideologia fascista.
E tanto più ciò risaltava, se paragonato con l’efficiente, imparziale ed attenta amministrazione della società britannica, sempre volenterosamente disponibile ad accogliere nel suo tessuto produttivo quelle managerialità commerciali di cui gli Italiani si mostrano assai dotati, nel settore della ristorazione in modo peculiare.
E dell’Italia conservavano quell’idea un po’ irreale e mitica frutto più della loro nostalgica fantasia che della realtà lontana e ormai sconosciuta. E se ora, la raggiunta solidità economica del loro patrimonio in lire sterline, stemperava il ricordo delle passate miserie, il velo della nostalgia lasciava tuttavia filtrare solo quelle visioni idealistiche che il trascorrere del tempo rende più idilliache e remote.
Tali ricordi portavano gli immigrati di prima generazione a tentare un azzardato ed il più delle volte, traumatico rientro, mentre i loro figli e nipoti, inglesi di nascita o comunque cresciuti colà, fuorviati dagli stereotipi della stampa inglese sulla mafia, sulla corruzione e sui disastri della finanza italiana (tutte verità parziali e non assolute di una realtà assai più complessa e sfaccettata), preferivano pensare all’Italia come ad un luogo di vacanze un po’ particolare, come un ritorno alle origini con cui confrontare la realtà britannica di attuale e nuova appartenenza, e per poterne poi decantare al rientro, coi toni esotici e meravigliati dello straniero, insieme ed oltre le immancabili osservazioni sulle disfunzioni dei servizi pubblici e privati, sui piccoli e grandi imbrogli di un popolo ancora convinto di essere sotto il giogo spagnolo, borbonico o austro-ungarico, le ultranote delizie culinarie, le bellezze artistiche e naturali (magari abbandonate a se stesse), con in testa l’iconoclastica napoletanità di sole, pizza e mare.
Insomma in questo snack-bar in fondo alla strada avrei potuto consumare un rapido boccone ed un tè in quattro e quattro otto, perché di lì a poco avrei avuto parecchio lavoro, con le strade che presto si sarebbero riempite di gente in giro per il lunch time e per molteplici altre incombenze.
Nel mio percorso incontrai Mickle, un simpaticone già avanti negli anni, originario del Kent che, avendo a traino il suo carrettino di ombrelli, incominciava la sua lenta cantilena tra l’indifferenza generale dei passanti.
Non so come né perché, ma tutte le volte che lo incontravo per strada col suo carrettino, era sempre successo che, in un modo o nell’altro, il cielo si oscurasse e scaricasse, quantomeno un copioso acquazzone, nel giro di un’ora, massimo due. Tant’è che qualcuno, forse un collega della Compagnia, i cui interessi e profitti erano con evidenza inversamente proporzionali alla pioggia ed al maltempo, mi aveva suggerito che appena l’avessi visto in azione, mi sarei dovuto precipitare a toccare, a mò di scongiuro, qualcosa in legno (materiale che sostituisce il ferro di noi Italiani nelle consuetudini superstiziose degli Inglesi). La sua fama di menagramo, vera o presunta che fosse, veniva accresciuta dal fatto che vestiva sempre di nero, così come scuri erano il suo viso, i suoi occhi e, nonostante l’età, anche i suoi capelli.
Mickle era un ex-marinaio ed io, che se avessi deciso di seguire le mie superstizioni più che il legno, mi sarei affrettato a toccare delle altre cose, avevo preferito istintivamente farmelo amico, così come, del resto, cercavo di fare con tutti gli operatori commerciali piccoli e grandi che andavo conoscendo nella strada.
Mi aveva così confidato dei suoi legami di amore e odio con l’acqua, e di come, una volta lasciato il lavoro in mare aperto, non riuscendo a sciogliere completamente quei vincoli che lo legavano all’elemento liquido, avesse deciso di continuare a coltivarli attraverso l’attività di venditore ambulante di ombrelli, agevolato dal fatto che riusciva a leggere il tempo e sentiva l’arrivo della pioggia nelle sue ossa, nei suoi reumi, prima ancora che essa si annunciasse nelle mutazioni del cielo.
E seppure non dubitassi più di questo suo potere, gli chiesi:
- “ Pioverà, oggi, old Mickle?”
- “ Oh certo!” – fece lui arrestando il suo carrettino – “Sono davvero spiacente, mio caro amico, ma dovrai rimandare un po’ dei tuoi affari a stasera”-. Poi dopo avere annusato l’aria come un cane da caccia, continuò nello stesso tono di voce cordiale e solenne: – “Solo un’oretta di pioggia per ricordare a questi sprovveduti che a Londra, uscire senza ombrello, è davvero una grande imprudenza!”
- “ Sono fortunato che ci sia tu”, – dissi ancora ridendo –“ ma come fai ad esserne tanto certo? Qual è il tuo segreto?”
- “Se te lo dicessi, mio giovane amico”- mi rispose con un tono serio e lievemente dispiaciuto- “ non sarebbe più un segreto. Comunque eccoti un ombrello; me lo pagherai quando vorrai e ad un prezzo veramente speciale!”
- “ No, grazie”- negai io cortesemente – “ lo dimenticherei sicuramente sul treno o da qualche altra parte; anch’io sono fra quegli sprovveduti europei che escono senza ombrello!”
- “ Tu sei O.K.! Tu sei un bravo ragazzo!”- mi fece lui per tutta risposta, strizzandomi l’occhio con fare complice e accattivante- “ E abbi cura di te.”
- “ Buona fortuna “- gli ribattei io. Lo lasciai che già qualche goccia di pioggia cadeva giù. E prima di entrare nello snack, notai che qualche sprovveduto turista gli si era già avvicinato e lui gli mostrava con cerimoniosa mirabilia l’apertura possente ed estesa dei suoi ombrelli.
Lo snack era semivuoto da basso, ma io, preso al banco un tè ed un minuscolo e soffice panino rotondo, mi avviai su per le scale al piano superiore. La disposizione dei sedili ai due lati del lungo e stretto corridoio e la loro foggia, faceva somigliare l’ambiente al piano superiore degli autobus di linea londinesi rossi a due piani.
Lì, presi posto in fondo alla sala, all’ultimo tavolino della fila di destra che, al pari degli altri tavolini, di entrambe le file, era incassato nelle pareti laterali del locale, mentre la parete di fondo, di fronte a me, era costituita in pratica da un’unica, massiccia vetrata.
Era il mio posto preferito perché da lì potevo osservare i movimenti della strada sottostante che ora, sotto la pioggia insistente, diventavano più frenetici e incalzanti, anche se non mancava chi, disinvoltamente, procedeva in jeans e maglietta, come se la sua pelle bianca e giovane, fosse stata di plastica lucida ed impermeabile.
Proprio di fronte, dall’altro lato della strada, mi è familiare la visione di un vecchio edificio che sul cornicione superiore portava la data 1861 e il nome della ditta di una compagnia di trasporti. Dentro quell’edificio, attraverso i vetri delle finestre, scorgo su diverse scrivanie in legno, cataste di cartaccia, macchine da scrivere, telefoni ed il via-vai continuo di numerose persone, che a quest’ora, cominciano a fremere per la pausa pranzo, da consumare, a seconda dei giorni e del carico di lavoro, anche in un angolo della scrivania dello stesso ufficio.
Consumo, lento e pensoso, il mio leggero pasto, osservando la pioggia sospinta dal vento scrosciare ritmicamente sulla vetrata.
Dabbasso comincia ad aumentare il trambusto: l’intensificarsi della pioggia in concomitanza dell’ora di pranzo spinge molti passanti a rifugiarsi in ogni buco disponibile.
Ma sono gli “habitués” a fare numero e movimento: gli operai, con le loro tute sporche di grasso, di polvere, di sangue da macello; si radunano di preferenza al piano superiore e parlano allegri e sguaiati di donne, di calcio e scommesse; si sfottono tra loro, sempre intercalando nel discorso colorite espressioni e parolacce; le grasse risate che ne conseguono, insieme al fumo e agli odori dei cibi caldi creano un ambiente gaio e accogliente.
Gli impiegati, più seri e composti, preferiscono stare al pianterreno. Il locale è già stracolmo quando giunge al mio tavolo un tipo di media statura, con una barbetta rada ed incolta, a chiedermi se sia libero il sedile posto di fronte al mio.
Si accomoda, incoraggiato dal mio gesto di assenso, mentre con le mani rollo una sigaretta del mio “Golden Virginia”.
Il tipo, tra un sorso e l’altro del suo “white coffee”, sbircia ostentatamente una vistosa bionda con le cosce lunghe, bianche ed affusolate, in bella e (forse) involontaria esposizione, nel sedile di fronte alla corsia opposta nella nostra. Provo imbarazzo per i suoi sguardi troppo arditi, impudichi ed insistenti. Dalla mia posizione l’avevo già notata, con la coda dell’occhio, mentre, quando il suo sguardo incrocia quello della bionda, il “barbetta” si infila sveltamente il dito della mano destra in bocca e lo muove sensualmente tra le labbra chiuse, mimando un’immaginaria “fellatio”.
Scorgo la donna arrossire violentemente e ricomporsi istintivamente con dei movimenti goffi ma rapidi.
Il compagno della donna, fino ad allora impegnato a divorare avidamente una bisteccona circondata da patate fritte ed insalata condita con degli sbuffi di salsette rosse, rosa e bianche, ha forse sentore di qualcosa. Gli leggo sulle labbra un soffocato “what’s up?”, mentre si deterge le labbra con il tovagliolo. Mi tengo pronto a tagliare la corda, ma la donna, saggiamente, lo tranquillizza, pur restando visibilmente imbarazzata.
-“Posso avere un po’ del tuo tabacco?” – mi chiede ad un certo punto, con un discreto e formale accento inglese il ‘guardomane’.
-“Sì, certo”- gli rispondo io in italiano, afferrando con la mano destra un “Corriere della Sera” che, ripiegato di costa sulla parete, si è ora aperto sul ripiano del tavolino.
-“Sei Italiano anche tu?”- mi fa strabuzzando gli occhietti verdi e acquosi.
-“Diciamo di sì”- annuisco un po’ titubante e sarcastico.
Evidentemente non coglie il mio imbarazzo. Si confeziona e poi si accende una grossa e imperfetta sigaretta, prima di riprendere a parlare. Spero nel mio cuore che la bionda non cambi idea proprio ora e comunque mi secca questa situazione nuova tra noi due. Per fortuna i due se ne vanno. Il suo accompagnatore si leva in piedi: ha una stazza gigantesca; vedo il mio compagno trasalire con un brivido di paura, quando lo sguardo acceso e indagatore si posa su di lui. Forse non è del tutto casuale quello sguardo velato di minaccia; in ogni caso il ‘barbetta’ sente di avere qualcosa da nascondere e da temere.
-“Che bello poter parlare finalmente in italiano!” – dice d’un fiato appena il gigante e la biondina hanno intrapreso la discesa per le scale. – “Certo che qui a Londra non sai mai come vestirti, al mattino. Nel frattempo che c’è il sole, tira vento e dopo fa acqua e poi magari nevica anche!”
Parla a valanga, come se parlasse a se stesso, guardandosi in giro come un animale in gabbia e quando poso il giornale laddove l’ho preso poco prima commenta:
- “ Le solite cazzate, hai visto? Non sanno scrivere altro che di inflazioni, recessioni, scala mobile, disastri e problemi vari. Ma dico io, perché ci vogliono affliggere con queste notizie? Ma che cazzo ce ne frega a noi? Io, guarda, perché me lo regalano” – e fa un gesto eloquente con la mano destra, prima aprendo le cinque dita a ventaglio, e poi subito richiudendole a pugno con una rapida rotazione- “ altrimenti ti giuro che neppure lo leggerei. Eppoi la mia più grande soddisfazione è pulirmici il culo. Scelgo apposta le foto dei politici più noti e se capita qualche cardinale o qualche vescovo ci passano anche loro, ed è festa grande, ti assicuro, per le mie chiappe! Ma perché non vogliono capire che la vita è fatta per divertirsi, per godere, per scopare?”-
Così dicendo mi punta addosso i suoi occhietti bramosi come se si aspettasse da me una risposta. Dentro di me spero ardentemente che non ci sia alcun italiano a portata d’orecchio e ringrazio il Cielo di non essere né una donna né un rappresentante del clero. E’ però subito evidente che il suo vuole essere un soliloquio. Infatti, se anche avessi avuto qualcosa da replicare, non ne avrei avuto neppure il tempo, perché subito riprende il suo appassionato j’accuse.
-“Invece ci reprimono con tutte queste storie dei peccati e dell’inferno e intanto loro si scopano le suore; e quel che è peggio queste stupide donne si fanno convincere a tenere le cosce chiuse prima del matrimonio!”
E’ costretto ad una brevissima pausa per rifiatare ed io ne approfitto subito; ho bisogno di un altro tè; gli chiedo se vuole qualcosa anche lui e scendo. Che tipo strambo! Un vero e proprio spiritato, matto strippato, completamente fuori di testa o quasi! Anche se autentico e vivo nella sua demenza. Quando risalgo colgo la sua espressione assorta e profonda, quasi assente. Mormora un grazie che è un sussulto un po’ isterico, di soprassalto, mentre gli porgo la tazzina col suo cappuccino.
- “Com’è che ti chiami tu? Non ci siamo neppure presentati..” – dice allungando goffamente la mano destra, per poi proseguire in un tono più rilassato, non so bene se di saggia filosofia o di malinconica speranza – “ La nostra generazione raccoglierà domani i frutti che sta perdendo oggi. Quando le nostre coetanee si accorgeranno dell’errore commesso, verranno recuperare il tempo perso, perché allora avranno capito il giusto valore della vita e saranno esse stesse a chiederci di scopare. Eh, sì! C’abbiamo proprio un roseo futuro davanti a noi, mio caro amico!”.
E mentre conclude si frega le mani, ridendo soddisfatto, come pregustandosi già un anticipo di questo auspicato futuro godereccio e chiavaiuolo. Mi chiedo perplesso se il suo “noi” sia un plurale majestatis oppure se mi abbia incluso nel suo discorso a causa dell’unica battuta che sono riuscito a piazzare almeno a metà e a mezza voce: “Campa cavallo…. ……”
-“ Che fai qui a Londra, Artemio?”- gli chiedo per cercare di cambiare discorso.
-“ Le seghe, mi faccio! Ecco cosa faccio! In continuazione, zio can! Esattamente come al mio paese, giù, nel Veneto! Per il resto posso dirti: tutto o.k. ! In Olanda la figa si acchiappa più facilmente, non trovi?”
Adesso ha di nuovo quel buffo aspetto spiritato e assatanato di prima.
- “ Beh, qui qualche retaggio di stampo vittoriano resiste ancora….O magari non ti sei ancora ambientato bene?” – mi correggo subito per paura di innescare qualche altra sua filippica contro la repressione dei costumi sessuali.
-“ Mah, sarà così! Staremo a vedere! Intanto mi sono iscritto a scuola di Inglese… bada che della lingua inglese non me ne frega un cazzo, ma mi hanno detto che nelle scuole è pieno di donne disponibili! Ho trovato anche un lavoretto part-time, così mi passo il tempo. Accompagno un tipo che fa un servizio di ritiro tovaglie, lenzuola, asciugamani e balle varie per una lavanderia. Andiamo sempre in giro con un pulmino per alberghi e ristoranti del centro. Mi diverto da matti. C’è tanta di quella figa per strada. Ohè, tu lo sai più di me, no?”
Tacque, finalmente, come se quello sfogo nella sua madre lingua gli avesse placato i morsi stringenti del desiderio sessuale lungamente represso e mai sublimato, perché non vi è nulla di peggio per un uomo, giovane e sano, di dovere rinunciare, contro la sua volontà, alle donne.
Con lui si acquietò anche la pioggia. Il sole, reso più caldo e luminoso dal riflesso della grande vetrata cambiò fisionomia alla giornata, che divenne di colpo più lieta, rendendo più sereno e contento anche il mio animo.
Artemio, nell’accommiatarci, mi promise calorosamente che sarebbe venuto a trovarmi ai gelati. In cuor mio gli augurai di acchiappare qualche ragazza vogliosa quanto lui di sesso e di compagnia, anche perché l’idea che mi si presentasse ai gelati, per stordirmi ancora con quelle sue chiacchiere lussuriose, passando magari il resto del tempo a spogliarmi tutte le potenziali clienti di passaggio con quei suoi occhietti libidinosi, non mi faceva davvero impazzire di gioia.
Rientrando al lavoro mi risuonavano nella mente quei pochi versi che ricordavo di una filastrocca che avevo trovata appuntata a mano sul retro di uno di quei bloc-notes che ci forniva la ditta per la compilazione degli incassi ed il relativo movimento merci giornaliero:
“Go street-trader go
No one can teach you
How to live
Go, chaser of freedom
Tempre of marble
Go, Go, street-lover
On the streets of the world
You’ll hit on your dreams”.