Altri street’s traders che ebbi modo di conoscere a Londra erano gli “specchiari”.
Ad eccezione di qualche postazione isolata, gli specchiari erano per lo più dislocati in una stretta rete di strade attorno alla famosa Carnaby Street, vero e proprio fulcro commerciale della Londra turistica e rocchettara sin dall’epopea dei Beatles; un poco già decaduta, ma ancora grande polo di attrazione in quella seconda metà degli anni settanta. Tutte le effigi dei simboli consumistici e della nuova mitologia occidentale, che trovavi riprodotti nelle T- shirts vendute come souvenirs nei numerosi negozi che occupavano la breve strada, regno del consumo turistico spicciolo, unitamente ai simboli propri di Londra, venivano riprodotti su specchi di diverso formato e venduti per la strada davanti a quegli stessi negozi, che costituivano anche il loro deposito e magazzino.
Da Marylin Monroe ad Humphrey Bogart; da Gin Beef Heart alla Coca Cola; dai modelli stilizzati liberty alla Union Jack passando per le birre irlandesi l’whiskey scozzese, i gruppi rock e persino la famiglia reale in pompa magna, tutto veniva riprodotto su quegli specchi colorati, delicatamente incorniciati e venduti da un minimo di 99 pence a un massimo di 20 sterline a seconda del loro formato e di quelli del portafogli e del bagagliaio del turista acquirente.
Gli specchiari di questa zona erano quasi tutti Italiani o Spagnoli. Giovani venuti su per studiare la lingua e conoscere la città; oppure per sfuggire un clima economico e politico di riflusso e, comunque, tutti richiamati dal grande fascino che Londra capitale del Rock esercitava ancora sui giovani di quell’Europa più povera e vi cercavano, insieme ad una maggiore libertà, un lavoro che gli consentisse di campare decorosamente, contando soltanto sulle loro forze e senza pesare sulla famiglia.
Tra gli italiani spiccavano i fricchettoni, contraddistinti dal tipico abbigliamento apparentemente trasandato. Io li chiamavo i fratelli minori dei sessantottini. Ma tra gli specchiari di Carnaby Street non mancavano neppure questi ultimi e Tommaso ne era un autentico e notevole rappresentante.
CAPITOLO 2-TOMMY
Tommaso apparteneva alla vecchia guardia degli italiani a Londra.
Agli specchi lavorava in nero e contemporaneamente percepiva il sussidio settimanale di disoccupato che, ufficialmente, gli spettava per essere stato licenziato dalla fabbrica dove aveva lavorato in precedenza ma che, a sentir lui, gli spettava invece come forma di rimborso delle tasse pagate in quegli anni; e poi, in una società come quella inglese, dove un paio di guanti per la caccia alla volpe costavano cento sterline (cioè quanto egli più o meno percepiva lavorando per un mese agli specchi, sabati e domeniche inclusi) non spettava certo ai proletari come lui fare economia. Inoltre, aggiungeva chiosando Tommaso, bisognava in qualche modo difendersi dall’inflazione inventata dai banchieri e dai padroni; e dato che a Londra le scale mobili le trovavi solo nella metropolitana, lui si difendeva percependo quel piccolo sussidio governativo che, congiunto al salario variabile degli specchi, gli consentiva di vivere tranquillamente.
Questo Tommy (come lo chiamavano a Londra) era un ragazzo di estrazione borghese, di quelli che agli occhi dei bempensanti non sarebbero mai riusciti a giustificare nè la loro inquietudine nè la loro insoddisfazione. Alto, longilineo e dai lineamenti regolari (lo ammiravo e un poco lo invidiavo per la facilità con cui attirava gli sguardi delle donne, ai quali ad onor del vero prestava soltanto un’attenzione compassata; cosa che accresceva attorno a lui quell’alone di privilegio e buona sorte) era dotato di un carattere volitivo e deciso che unito al suo carisma affabile ed altruista ti portava istintivamente a volergli bene nonostante alcune sue contraddizioni che non solo era incapace di spiegare ma di cui mostrava di non rendersi neppure conto. Ma quest’ultima cosa, in coscienza, lo vedeva in tutto uguale al movimento generazionale di cui anche io facevo parte.
Aveva lasciato Roma nei primi anni settanta, quando il sogno di una società più libera si era già infranto sulle barriere del perbenismo e della ipocrisia borghese. Così, deluso dal tradimento di quella classe operaia nei cui sindacati lui, attivista del movimento studentesco, aveva ciecamente creduto; ancora troppo acceso di quel furore giovanile che negli anni ideali del ‘68 aveva sprigionato la massima energia vitale; frastornato, incredulo, che quel fragoroso boato fosse stato solo lo scoppio di una bolla d’aria piuttosto che il primo scricchiolio del crollo fatale di un sistema logoro, da abbattere ad ogni costo; con la voglia di dimenticare e di ritrovare i più che mai vivi aneliti di emancipazione; sospinto dal fascinoso richiamo culturale della nuova frontiera del movimento, che all’ombra del Big Ben cercava in quegli anni rifugio e rigenerazione; alla ricerca di una nuova identità che un occidente inquieto e sbandato si illudeva di trovare, se non come risposta immediata, almeno come speranza di riscatto nei crismi e nelle illusioni dei miti orientali, di cui la capitale dell’ex Impero Britannico per il suo passato coloniale e per vocazione costituiva l’avamposto ideale e sicuro; incerto, inerme, confuso e amareggiato si era lasciato quasi passivamente trascinare verso Londra da una di quelle correnti energetiche, tanto misteriose e inspiegabili quanto invisibili e incontrollabili che impetuosamente sono capaci di trascinarsi dietro anche il destino di interi popoli e nazioni.
…continua…