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Un tempo aveva collezionato bustine di zucchero, ma era stata la moda di una stagione, niente a che vedere con le passioni di Nero Wolfe, per dire.
Certo, aveva sempre desiderato un gatto, quello sì, uno di razza Maine Coon, il gatto più grosso e peloso che avesse mai visto, una sorta di lince domestica. Chissà se qualcuno degli imbrattacarte patentati che sgomitavano ai corsi di scrittura creativa della città di Dante, un giorno si sarebbe ispirato a lui se avesse posseduto un Maine Coon, ci sta che diventasse il commissario col gattone.
Farsi un giro pomeridiano per gli Uffizi era condizione ambientale decisamente più gradevole rispetto alla tappa forzata a casa della vittima, dov’era stato al mattino.
La ragazza morta, molto probabilmente assassinata, si chiamava Camilla, 35 anni, guida turistica, era la figlia di una sua ex-professoressa del liceo e la tragedia assumeva dei tratti particolarmente seccanti e quasi personali.
Al mattino il padre di Camilla non aveva quasi aperto bocca, gingillandosi tutto il tempo con le robe della cucina, tazzine, mestoli, spugnette, caffè; ma la sua vecchia profe, la madre della ragazza, gli s’era affidata completamente, in preda a un dolore forse ancora soltanto abbozzato, ma capace di offuscare il futuro come una nube tossica.
Lui aveva insistito principalmente sui fidanzati presenti e passati, tanto lì si va a cascare, ma al di là di un filarino a venti anni Camilla, che già da una decina d’anni viveva da sola in un altro quartiere, pareva essersi dedicata quasi esclusivamente alle amiche, per viaggi, cinema, cene fuori e quelle cose lì che si fanno da giovani.
Aveva già richiesto l’analisi del traffico del telefono cellulare di Camilla. Se volete davvero ammazzare qualcuno evitate di telefonargli nei dieci anni precedenti l’assassinio, almeno, pensava Fantechi.
La ragazza non aveva un profilo facebook, a quanto pareva, e nemmeno un computer del resto.
Dai vicini di casa della vittima, in zona Cure, ci aveva mandato il vice ispettore Schiattarella, lui sì che con un nome così poteva diventare fonte d'ispirazione per un giallista, certo l'acume era quello che era, povero Schiattarella, però aveva metodo, era ostinato come un trapano mandato a martello, anche se le orchidee no, non le coltivava nemmeno lui.
Agli Uffizi, dai finestroni affacciati sul lungarno filtrava un sole basso e appena tiepido ma capace di riscaldarsi nella rifrazione sulla vetrata.
I custodi potrebbero essere parte essi stessi di una delle performance avanguardiste messe in scena da artisti scafati e fuori di testa, se solo fossimo alla Tate. Ma siamo agli Uffizi e per adesso rimangono custodi.
Fa qualche domanda di rito e ne esce, com’era logico, che tutti bene o male conoscevano Camilla, la quale negli ultimi sei mesi come guida aveva praticamente lavorato solo per gli Uffizi.
Nella sala della Primavera, la custode tracagnotta dal capello corto e tinto di un grigio troppo grigio, gli dice che magari può chiedere anche alla pittrice là, quella per terra, lei la conosceva meglio.
Il commissario l’aveva già notata attraversando la sala una mezz’ora prima: seduta a terra all’indiana, pantalone largo a fiori, camiciona scura e gilet peruviano, capello lungo, riccio e nero. Una madonna forse o una madonnara.
Dipingeva il viso della Venere, era mancina e vedere ciò che andava schizzando sull’album era impresa delicata. Usava solo del carboncino e un giallo ocra a sfumare capace di rendere il tutto più antico ma irragionevolmente più vivo.
Il volto della Venere era armonioso e seducente, quasi meglio dell'originale, con tutto il rispetto per Botticelli.
Le chiese se la conosceva Camilla.
«Certo» gli rispose, era lei che la riforniva di permessi speciali per gli ingressi, gli spiegò la madonna madonnara.
Il commissario le chiese dei suoi lavori a carboncino e lei gli spiegò che si stava laureando in Storia dell’arte e che i bozzetti le servivano per la sua tesi: Le dame agli Uffizi.
La guardò ancora per qualche minuto, rapito, mentre traslava l’estasi dell’opera sulla carta, strusciando e picchiettando, sbaffando e ripassando.
«Hai visto se frequentava assiduamente qualche ragazzo? Qualcuno più di altri? Ti è sembrato che avesse una storia o qualcosa di simile… magari te ne ha parlato, magari hai sentito qualcosa. Uno che la importunava…», gli venne naturale darle del tu.
«Ragazzo? No, direi di no».
«Un turista intraprendente, uno straniero, qualcuno che veniva a prenderla, o qualcuno con cui magari restava a parlare un po’ di più. Un custode forse?»
«Uhm».
Non aveva tutta questa voglia di raccontare, la ragazza.
Il commissario le chiese il nome, Monica si chiamava.
«Se ti viene in mente un particolare di qualcosa o qualcuno, magari passi da me in Questura, c’è un ragazzo bravo con gli identikit, se non lo vuoi fare direttamente tu…» così dicendo allargò le braccia e ammiccò verso l’album dei ritratti di dame, o quello che erano.
Prima di tornare al commissariato, Fantechi fece un salto al bar sulla terrazza del museo, proprio sopra alla Loggia dei Lanzi. Lo spettacolo che si godeva da lì non aveva eguali: il Palazzo Vecchio e Piazza della Signoria erano a completo servizio di lussuriose fotocamere e di occhi golosi come i suoi.
Ordinò un aperitivo analcolico a una fata platinata che si muoveva tra i tavoli come uno sciatore tra i pali stretti.
She loves you riecheggiava nell’aria brunita che avvolgeva quello sprazzo di Rinascimento, classico tra i classici. Avrebbe potuto viverci lì, anzi avrebbe dovuto, pensò.
Tornò la cameriera bionda carina con il cocktail mentre il coro dei fab four illudeva il commissario Fantechi con lo She loves you, yeah yeah yeah, Lei ti ama, sì sì sì… Magari.
In commissariato si vide con Schiattarella, di ritorno dalle Cure, dove aveva torchiato il vicinato di Camilla ma davvero aveva raccolto poco più di niente. Schiattarella lo ragguagliò, però, sull’esito dei primi esami del medico legale sulla ragazza morta: il risultato formale ancora non era disponibile, ma come già sospettavano, Camilla era stata avvelenata.
Sulla scrivania stavano sparpagliate le foto della scena del delitto della sera prima, una cena per due finita in tragedia.
C’era solo da trovare il secondo, l’invitato, quello che aveva alterato la bottiglia di Castello di Pomino siringando giù il veleno attraverso il tappo.
«Quanto al veleno, non ci aiuta» chiosò il vice ispettore «se lo poteva procurare anche mio nipote delle medie. Si tratta di estratto di oleandro bianco, un infuso, una sorta di tisana fatta bollire un paio d’ore e capace di farti dormire sì, ma per sempre».
«Bisogna trovarlo ‘sto cristo».
(continua...)
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Il testo partecipa all' Eds in giallo de La Donna Camèl, con anche:
Bitols - Dario
Il numero 97 - Melusina
N. 2 - Giallo canarino - Angela
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