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Nutro due riserve verso chi ritiene che il liberalismo sia cosa preminentemente economica spendendosi quasi sempre esclusivamente contro ciò che mortifica la proprietà privata e la libertà d’impresa.La prima. Certo, la proprietà privata è un’estensione dell’individuo e la libertà d’impresa è una declinazione del suo diritto di autodeterminazione responsabile, ma come si può lottare contro tasse troppo alte senza aver prima fatto tutto perché all’individuo sia garantita la sovranità sul suo corpo e sulla sua mente? Come si può lottare contro l’asfissiante burocrazia statalista senza spendersi contro la filosofia che informa lo stato etico e paternalistico, che è sempre il portato di una pretesa autoritaria in campo morale? Possibile – mi chiedo – che questi cantori della libertà economica non ne vedano i fili che la legano indissolubilmente a ogni altra libertà? E come possono aver fisso l’occhio al grafico della pressione fiscale in Italia, senza alcuna apparente preoccupazione per la pressione che lo stato fa sul corpo e sulla mente degli individui? Ma davvero pensano – mi chiedo – che basti dimezzare l’Irpef o l’Iva per raddoppiare i diritti civili?Per la seconda perplessità mi servirò di un esempio. Costui è un liberale, dicono, e qui parla al ceto politico. Questo ceto politico. Quello che ha salvato Alitalia coi soldi dei contribuenti perché alla patria non mancasse una compagnia aerea di bandiera: nessun vantaggio sul biglietto, anzi, però un sacco di orgoglio per aver fottuto i francesi, che peraltro adesso di Alitalia hanno il maggior pacchetto. Mingardi parla al ceto politico che da 17 anni promette la rivoluzione liberale, un drastico abbattimento fiscale, liberalizzazioni di qua e là, privatizzazioni di sopra e di sotto, senza però mai riuscire a fare un cazzo di un cazzo, tranne che leggi illiberali e liberticide, favori ai preti, caccia agli zingari e chiacchiere nei talk show – e a questo ceto politico Mingardi consiglia “grandi svolte e piccoli passi”. I taxi, per esempio, ma qui è necessaria ampia citazione.
“Parlando di una «frustata» per l’economia italiana – dice Mingardi – il premier ha fatto riferimento all’esperienza da ministro dell'industria dell’attuale leader del Pd. Com’è noto, il Bersani ministro dell’industria non riuscì invece a porre mano ad un ampliamento dell’offerta di taxi, e venne anzi travolto dalla categoria e da un manipolo di politici che se ne assunsero la rappresentanza, primo fra tutti l’attuale sindaco di Roma, Alemanno. Proprio una delibera dell’Assemblea capitolina (il nuovo, altisonante nome del Consiglio comunale di Roma) è stata segnalata la scorsa settimana dall’Antitrust in quanto «volta esclusivamente a mantenere rendite di posizione». Infatti, essa, per attuare la riforma del sistema tariffario avviata con un regolamento comunale del luglio scorso, individua tra i criteri di valutazione della congruità degli aumenti tariffari «il rapporto domanda e offerta a seguito dell’ampliamento dell’organico con rilascio di nuove licenze». L’Assemblea capitolina, erede spirituale dell’antico Senato romano – ironizza Mingardi – con piglio imperiale riscrive le leggi dell’economia: se aumenta l’offerta, che i prezzi aumentino, anziché diminuire. Visto che parliamo di prezzi determinati dalla politica e non dalla negoziazione fra parti, è chiaro che l’idea è quella di ratificare uno «scambio» con la categoria dei tassinari, vincolando l’aumento delle auto bianche circolanti alla «compensazione» dell’aumento tariffario. Si assume che a una maggiore concorrenza debbano per forza corrispondere inferiori ricavi per tassista, ignorando la possibilità che un’offerta più abbondante contribuisca a irrobustire la domanda. Ma non sono i minori ricavi ciò che andrebbe compensato. Il grande argomento della categoria contro la liberalizzazione è la diminuzione di valore della licenza, di norma acquistata a caro prezzo e considerata in prospettiva una sorta di «liquidazione». Soprattutto per coloro che ne hanno acquisita una di recente, l’argomento è sensato. Se questo è il problema, però, meglio sarebbe tornare a una proposta che come Istituto Bruno Leoni avevamo avanzato alcuni anni fa (riprendendo un’idea di Franco Romani): ampliare l’offerta regalando una licenza, liberamente alienabile, a chi già ne avesse una. In questo modo, ai tassisti sarebbe stata lasciata virtualmente la possibilità di controllare l’offerta (la corporazione potrebbe «bloccare» l’aumento della concorrenza, se tutti compattamente si tenessero la seconda licenza in cassaforte), ma probabilmente un beneficio immediato (la vendita della seconda licenza, o il suo utilizzo da parte di un familiare) verrebbe preferito a uno lontano nel tempo e comunque incerto (la tenuta del valore della prima licenza). È agli atti una proposta dell’allora presidente della commissione Attività Produttive della Camera, Daniele Capezzone, per rendere possibile questo «scambio». Perché non si fece nulla? Probabilmente perché la proposta implicava la rinuncia dei Comuni a qualsiasi guadagno potenziale per le nuove licenze emesse. Decida il lettore se sono più dannosi i veti delle corporazioni, o l’avidità delle amministrazioni”.Ok, è più dannosa l’avidità delle amministrazioni, Mingardi ci ha convinto. Ma in questo caso parliamo del Comune di Roma e di Gianni Alemanno, uomo di spicco del “partito liberale di massa”. Ci sarebbe agli atti la proposta fatta da un altro liberale alla Mingardi, l’ineffabile Capezzone. “Perché non si fece nulla?”, chiede Mingardi, ma perché non lo chiede a Capezzone?
Per quella presidenza della commissione Attività Produttive della Camera, Capezzone mise da parte le sue battaglie in favore delle libertà civili e si risolse a credere che si possa lottare contro tasse troppo alte senza aver prima fatto tutto perché all’individuo sia garantita la sovranità sul suo corpo e sulla sua mente. Si risolse a ritenere prioritaria la lotta contro l’asfissiante burocrazia statalista, ritenendo secondario, forse addirittura superfluo, spendersi contro la filosofia che informa lo stato etico e paternalistico, e per farlo fu costretto a chiudere un occhio sulla pretesa autoritaria del blocco sociale che gli offriva questa chance. Divenne cantore della libertà economica recidendo i fili che la legano indissolubilmente a ogni altra libertà. E propose una tassa piatta al 20%, senza più alcuna apparente preoccupazione per la pressione che intanto lo stato continuava a esercitare sempre più sul corpo e sulla mente dei suoi cittadini. Pensò che bastasse dimezzare l’Irpef o l’Iva per raddoppiare i diritti civili, e non ebbe né l’una né l’altra cosa. “Perché non si fece nulla?”. Semplice: non era possibile, e continua a non esserlo. Separare la libertà economica dalle altre libertà è impossibile, salvo a sostituire il merito col privilegio. Anche così, però, non è detto: “grandi svolte e piccoli passi” possono rimanere agli atti.
Leggo Alberto Mingardi su Il Sole-24 Ore: “Se davvero il nostro ceto politico è convinto che sia possibile mettere in cantiere, oggi, una serie di riforme per riavviare la crescita, sarebbe bene alternare unire terapie shock e omeopatia, grandi svolte e piccoli passi. L’esperienza degli ultimi quindici anni ci insegna che in Italia le grandi riforme deragliano perché troppo ambiziose: è difficile costruire consenso politico, senza avvitarsi in compromessi che le snaturano. Al contrario, le piccole riforme inciampano sui veti dei gruppi d’interesse. Se mai la politica dimostrasse di saper dribblare le pressioni corporative, allora forse si potrebbe tornare a prenderla sul serio, anche quando progetta cambiamenti epocali”.
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