Magazine Cultura

Sangue di cane, di Veronica Tomassini

Creato il 28 ottobre 2010 da Fabry2010

di Ezio Tarantino

Sangue di cane, di Veronica Tomassini
Di cosa tratta Sangue di cane, di Veronica Tomassini, primo titolo della neonata casa editrice Laurana, di Milano, libro di cui si parla tanto? (e sarebbe interessante verificare se alla popolarità del libro sulla rete corrisponda un adeguato risultato nelle vendite, ma queste sono curiosità difficilissime da soddisfare, visto che i dati sulle vendite dei libri sono coperti da una coltre di  segretezza che nemmeno Wikileaks riuscirebbe a svelare).
Sangue di cane è un libro sull’amore assoluto. E’ la rappresentazione dell’amore di Dio.

Per il credente Dio è l’amore, e il suo amore per l’uomo è pazzo e indiscutibile (se non amasse, Dio rinnegherebbe se stesso e questo non è possibile: non sarebbe Dio). Dio sfida l’uomo sul terreno della fedeltà. Dio non si cura se l’uomo gli sarà fedele, non si cura della natura e dei modi con cui l’uomo ricambia, se lo ricambia, il suo amore. Dio però garantisce all’uomo la sua fedeltà assoluta.
L’amore raccontato nel libro della Tomassini è la figurazione dell’amore pazzo, indefettibile, contro ogni logica, fedele fino allo stremo e oltre, di Dio.

L’amore di cui si parla nel libro, quello di una ragazza piccolo borghese di Siracusa per un uomo polacco che vive di stenti e alcolista, come tutti i polacchi (a quel che sembra), è del tutto illogico. Persiste ad ogni tradimento, resiste all’ennesima sbronza, all’ennesimo fallimento di redenzione sociale. Resiste, anzi, ne viene fortificato, all’ambiente devastato della derelitta comunità polacca che si trascina fra vodka, prostituzione e morte, nei giardinetti e nei vagoni dei treni fermi nella stazione (ma è davvero così? in questi ultimi anni? ammetto di aver nutrito un fastidioso pregiudizio negativo al riguardo: conosco, ormai da un paio di decenni, alcuni polacchi a Roma, e mi pare difficile immaginare una situazione tanto radicalmente diversa da quella che risulta a me – sto parlando proprio dei polacchi, che sono i protagonisti del romanzo, e sto parlando di questi ultimi otto anni).

L’amore divino è anche tematizzato (forse non ce n’era neppure bisogno), nella figura di una suora buona e paziente nei confronti di tutti gli ultimi del mondo, nessuno escluso. Una Madre Teresa in piccolo che torna utile alla scrittrice per far prendere coscienza alla protagonista dell’esistenza di una potenza superiore benigna che l’assiste. Come pure nell’ambiente idilliaco della comunità terapeutica dove il polacco trova rifugio e parziale riscatto. “L’amore perde sempre” ha scritto qualcuno a proposito del romanzo. Ma non è vero. L’amore vince, ma è estremamente difficile capire la natura e le modalità con cui la vittoria si esprime.

Tomassini per raccontare l’abiezione e il lurido, disperato sottomondo dei polacchi di Siracusa ha scelto un tono lirico ed evocativo (tutto declinato in seconda persona, proteso verso l’amato perduto con una accentuato, ricorsivo, forse pedante uso della figura dell’anafora), per quanto insudiciato – dal punto di vista lessicale – con la realtà cruda che descrive.
La rinuncia ad una struttura progressiva, e al racconto “sceneggiato” a favore di un procedere per chiusure e riaperture (è l’andamento a strappi della memoria, che gira intorno alle cose, si allontana e ci ritorna, le perde, le recupera, va avanti e indietro senza un disegno predefinito), obbliga il lettore a percorrere una strada in salita, impervia, senza strumenti per orientarsi.
Il racconto, per via di questa scelta stilistica, risulta costruito in modo riepilogativo e sintetizzato: non troveremo, ad esempio, episodi in apparenza narrativamente secondari, ma utili, magari in modo metaforico, a portare acqua al mulino del significato. Il tono è sempre enfatico ed esplicito, sempre istruito da un’emozione forte che, acquattata dietro ad ogni episodio, ad ogni tappa di questo calvario alcolico e disperato, costruisce la nervatura del memoriale che, per dare un senso estetico al tema, non ha altri strumenti che quelli di far ricorso ad una pura oggettività e all’ansia reiterata del ricordo, da consumarsi in un’apnea dolorosa e sfiancante.
Ma in questo modo la lettura del libro sembra voler essere una provocazione, un prendere o lasciare, una richiesta senza possibilità di mediazioni, una fatica che può rischiare di non favorire la sintonia emotiva, empatica con la protagonista. Personalmente mi sono chiesto: è proprio questo lo stile funzionale a far accettare la sfida dell’amore assoluto? a perdersi nella follia della fedeltà ad ogni costo? Ad eludere la scorza di banale razionalità (o ragionevolezza, o debolezza, o cinismo, o paura, o ipocrita ricorso ai sensi di colpa, o …) che alberga in ciascuno di noi e che ci mette sulla difensiva – anche (o soprattutto) di fronte alla magnificenza al limite del sopportabile dell’amore di Dio?

Il libro del resto sembra dichiararlo in modo esplicito: non vuole essere attraente, o meglio, attrattivo: chiede che il lettore lo accetti e non capisca, ma viva le stesse emozioni, senza giudicare. Anche la scelta di anticipare il fallimento del finale, diluendo le informazioni all’interno del racconto, è coerente con il desiderio di evitare accuratamente ogni concessione al ricorso ad una struttura che faccia leva su un accomodante climax narrativo, e di uniformare le emozioni del lettore con quelle della scrivente, prima ancora che della scrittrice.

Questo aspro cammino che la scrittrice impone al lettore, questa sfida può essere più o meno accettata.  Ma è l’unica su cui si gioca la partita della letteratura, e su cui si deve giudicare un libro. Anche l’esperienza dell’amore, raccontata in un romanzo, non può che essere un’esperienza estetica, o non è.



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazines