Ero in balcone con Leda, c’era un freddo che stonava con la primavera segnata dal calendario. Si vedevano le luci del teatro, arancioni, e la cima dell’albero alle sue spalle oscillava leggera come una culla. Mentre Leda sollevava la sua sciarpa grigia sopra la bocca io le dicevo che avevo smesso di sognare ed ero felice. Non che dorma bene, le ho detto, sarà il cambio di stagione, sarà che sento caldo o sarà che mi deve venire il ciclo, fatto sta che non dormo bene. Ma avevo fatto dei passi avanti, spegnevo il cellulare e riuscivo a leggere fino a tardi. Mi addormentavo stordita, pensando principalmente a come si costruisce un personaggio e a cosa mi sarei messa il giorno dopo per andare a lezione. E lei aveva degli occhi grandi e mi diceva che era meglio così. Le sue parole mi arrivavano calde e attutite dalla sciarpa di lana.
Sapevo che non sarebbe durata. E infatti quella stessa notte ho ricominciato a sognare. Mentre sogno mi sveglio sospirando come se mi lamentassi, come se ci fosse una zanzara che continuamente cerca di azzannarmi sulla fronte. Mi sveglio mugolando e mi giro sull’altro fianco e dopo un po’ mi giro di nuovo. A volte invece mi sveglio muovendo le mani per aria, come se cercassi di afferrare un filo invisibile o un pensiero, poi mi sistemo il lenzuolo e mi riaddormento sconfitta.
Fatto sta che non dormo bene. E da quando ho ricominciato a sognare dormo peggio.
Non ho modo di arginare questa cosa, dal momento che, com’è noto, non è possibile controllare i propri sogni. La sola strategia che sono quindi in grado di adottare è di dimenticarli il più in fretta possibile al risveglio. Ma c’è sempre un momento in cui mi tornano in mente: quando apro il cancello che separa un corpo scala e l’altro all’interno del mio palazzo. Metto una mano sull’inferriata e penso a sant’Agata e subito mi assalgono il ricordo del sogno e un pervasivo senso di solitudine. Attraverso il cancello, lo richiudo, comincio a scendere i più larghi gradini che portano all’uscita. E mentre scendo quei gradini penso sempre a delle cose che sul momento mi sembrano intelligenti.
Una volta ho pensato che quando scrivi per qualcuno in particolare quello che scrivi fa sempre schifo a rileggerlo dopo un po’. Un’altra volta ho pensato che non è possibile scrivere ed essere completamente sinceri nello stesso tempo. Un’altra volta ho pensato a quanto è stato bello questo febbraio, e che avrei voluto avere le parole per raccontarlo esattamente per come l’ho vissuto. Un’altra volta ancora ho pensato che è ridicolo chiedere a chiunque di vederti interamente quando tu stessa non sai interamente chi sei. Quando ho capito che tutte le cose che pensavo dopo aver chiuso il cancello riguardavano insieme la scrittura, gli altri e l’amore ho capito anche che non poteva esserci niente di intelligente o sensato in quello che pensavo. Così adesso dopo che chiudo il cancello mi metto le cuffie e ascolto una canzone.
La canzone ideale dura circa otto o nove minuti, il tempo che impiego per scendere le scale, uscire dal portone, percorrere via Vittorio Emanuele, svoltare prima del Boggio Lera, entrare dall’ingresso secondario dei Benedettini e raggiungere il cortile. Se ho saputo scegliere la canzone giusta il mio arrivo nel cortile coincide con la fine della canzone. A volte rallento o accelero il passo perché non mi piace sbagliare coi tempi. Scelgo sempre una canzone che posso cantare o almeno un po’ ballare per strada. Mi fa stare meglio. L’ultima volta ho ascoltato Fortissimo cantata da Mina e per un pelo non mi mettevano sotto con la macchina.
Quel pomeriggio quando sono arrivata erano ancora tutti fuori. Li ho salutati con un bacio e ho abbracciato Corrado perché non lo vedevo da qualche giorno. Poi sono entrata a posare la borsa in aula, dove c’era Maurizio che caricava le slide della lezione sul computer e mentre caricava le slide ascoltava Creep dei Radiohead. Ho posato la borsa indugiando qualche secondo, mi è sembrato che fosse inutile tutto quello che non ruotava attorno allo stesso pensiero e per scongiurare ogni potenziale catastrofe interiore sono uscita dall’aula e ho raggiunto Grazia che mi aspettava per la sigaretta.
Purtroppo sulla storia dell’inutilità la penso ancora allo stesso modo.
Quando sono tornata a casa ho ricontrollato gli appunti delle lezioni delle ultime settimane, soffermandomi soprattutto su quelle che mi avevano annoiata di più. Sugli appunti delle lezioni che mi annoiano scrivo sempre delle cose che non c’entrano niente e accanto metto un asterisco. Per esempio “dolcezza indivisa”, oppure “vapori di mercurio”, oppure “il flauto suadente del dialetto”. E siccome mia madre mi ha insegnato che di ogni mela mezza marcia va sempre presa la parte buona, a volte scrivo solo quello che si salva della lezione e per lo più sono citazioni. Per esempio quella di Jacques Séguéla, il quale diceva: “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario, lei mi crede pianista in un bordello”. Anche Jacques Séguéla, evidentemente, dalla madre aveva imparato qualcosa.
In mezzo a tutti gli appunti trovo tre versi che avevo scritto durante la lezione di architettura di qualcosa, ai quali finalmente posso aggiungere l’ultimo e godermi quel momento in cui dopo tanto chiedersi e tanto tormentarsi alla fine ti sembra di aver trovato una risposta, anche se come sempre arriva tardi.
Mi chiedo se mi vedi
a pezzi o intera
se mi riconosci
e non m’importa.