Aver fondato un quotidiano evidentemente dà il diritto a pontificare su tutto e tutti, come da anni fa Eugenio Scalfari. Da quando era caporedattore di “Roma Fascista” è passato molto tempo e per raccogliere le sue omelie ci vorrebbero interi archivi.
Lo studioso Francesco Bucci ha però fatto uno sforzo notevole andando a riprendere gli articoli del gran sacerdote del laicismo, pubblicando finalmente (dopo moltissimi e impauriti rifiuti) il suo “Eugenio Scalfari – L’intellettuale dilettante“ (Dante Alighieri, 2013, pp. 151). Analizzando gli scritti di Barbapapà, Bucci ha rilevato immediatamente che il livello di cultura del fondatore di “Repubblica” è vicina a quello dello studente svogliato e poco preparato, sopratutto di filosofia.
Gli strafalcioni imperano, così come la confusione generale sul pensiero dei suoi autori preferiti (Hegel, Montaigne ecc.). Per approfondire invitiamo la lettura della recensione del sociologo Giuliano Guzzo.
Tuttavia, nel suo ultimo libro, “L’amore, la sfida, il destino” (Einaudi 2013), Eugenio Scalfari raggiunge un punto di maturità notevole autodefinendosi “narciso paterno”, perennemente in debito verso tutti, che “ama gli altri per essere amato”. Una perfetta sintesi dell’estrema vanità di Barbapapà, come quando riconosceva di essere «appassionato all’ebbrezza del potere» e che lo ha portato a rivolgersi così ad un vigile mentre lo multava: «Sarebbe meglio che lei facesse una cura ricostituente anziché contravvenzioni, perché lei non sa chi sono io! Io sono l’onorevole Scalfari».
Ma che lo porta anche inevitabilmente ad espellere Dio dalla sua esistenza per mettere al centro il suo (super)Io e affermare l’abissale e lucido nichilismo: «mi sono convinto che il senso della vita è un nonsenso: vivere ha un inizio e una fine, si nasce e si muore per caso, ognuno di noi potrebbe anche non nascere, senza che questo abbia effetti sull’Universo. Di fatto la vita è formata solo da brevi segmenti di senso, dettati di volta in volta dall’incontro del nostro mondo interiore con la realtà esterna». Anche se questo comporta inevitabilmente definire se stesso e i suoi cari delle “scimmie pensanti” e la sua vita come «malinconia, risentimento e voglia di compensare un torto subito» (E. Scalfari, “L’uomo che non credeva in Dio”, Einaudi 2008).
La redazione