Il popolo italico, almeno nelle sue più radicate sedimentazioni storico-sociali, non è un popolo tragico. Anzi, spesso ha fatto di tutto per trasformare pure le sue tragedie in commedie, specie quelle comiche dell’arte di sapore goldoniano (la fortunata frase di Flaiano: “la situazione politica in Italia è grave ma non è seria”, la poteva pronunciare, appunto, solo un italiano). E’ il popolo dell’operetta e del melodramma, che ricorda i ritornelli e dimentica, troppo facilmente, il suo contenuto lirico, profondo, essenziale. E così si è comportato anche di fronte al naufragio della Costa Concordia del 2012. Con la differenza che ormai oggi egli non è più solamente lo spettatore pagante di una messinscena, seppur tragica come quello dell’isola del Giglio, ma è diventato egli stesso, in una sorta di curiosa legge del contrappasso, parte integrante di quel patetico scenario. Come la commedia aristofanea esige al proprio centro un individuo che si discosti dai parametri comuni, anche la melodrammaticità italica richiede la dismisura, benché completamente integrata, unanime, democratica, per tutti e di tutti. Tutte caricature! E’ questo infatti l’atteggiamento sinistro e smodato che ha alimentato il giudizio morale sull’ex capitano Schettino. Ricordo, a tal proposito, i toni talvolta inquisitori, comunque perentori, invocare persino la pena di morte, o lo spettro della pubblica gogna, per aver abbandonato la nave naufragante (queste valutazioni morali paventavano il giudizio di una superiore legge etica di vago ed ancestrale sapore marinaresco-sociale. Come se il popolo si rifacesse, nei suoi volubili giudizi, ad un Pietro Mocenigo qualunque). Più del danno e delle morti provocate, il popolo del melodramma imputa all’”immorale” ex ammiraglio di non essere, come loro, un cuor di leone, un puro e candido giglio di campo. Eppure forse ci fu un tempo un’altra Italia, un paese magari più ingenuo, ma a cui necessitavano paladini per fortificare il senso d’appartenenza e modelli per puntellare l’ancora fragile unità nazionale. Forse quel Bel Paese, un tempo meno incline a porre il coraggio quale dominus valoriale, avrebbe magari dedicato al comandante pure una piazza, o almeno una via, per quanto secondaria (s’intravede già, in tal senso, una certa riconoscenza italica: la pseudo lectio magistralis a La Sapienza su come gestire il panico). Quella dei celebri eroi dell’”armiamoci e partite” e dell’omicida tattica dell’”attacco frontale”, ad esempio, che ebbe a Caporetto il proprio degno banco di prova ed in Cadorna il proprio brillante stratega (quello che si scandalizzava se i fanti-contadini non erano più disposti a farsi ammazzare, come carne da macello, per lui o per la patria). Oppure ancora quell’Italia che fa dell’encomio ai propri valorosi fuggitivi, quantunque sottaciuto e rasente, un motivo di orgoglio personale e nazionale: dal “tutti a casa” che vede l’8 settembre scappare il Re e il generale Badoglio da una Roma assediata dai tedeschi, al prode Mussolini, che dopo tanta retorica sulla “bella morte” viene catturato mentre s’imboscava, opportunamente travestito da tedesco. Una storia di martiri che, da Bettino Craxi a Marcello Dell’Utri, procrastina sempre più in avanti la conclusione delle proprie res gestae. Da un’Italia che, compiaciuta della propria innocenza, è finita sbrigativamente per reificare alcuni compatrioti per una propria mancanza di “spirito” (nella necessità di sopravvivere a sé stessa ha trovato che era meglio trovare un “uomo forte” a cui delegare le proprie speranze, le proprie illusioni e le proprie responsabilità, così da potersene infine scaricare), è uscita di risulta un’Italia che non ha mai voluto veramente fare i conti con sé stessa, né coi propri ambigui idola Un popolo che ha preferito le retoriche alla verità si comporta, alla fin fine, retoricamente anche nei confronti dello scandaloso Schettino. Si scandalizza però senza avere le carte in regola, privo qual'è di qualsiasi consapevole vergogna: squalifica e disprezza l’ammiraglio senza aver portato alla coscienza il proprio glorioso passato, e senza aver mai nemmeno sentito l’urgenza di vedersela prima con sé stesso. Ma all’italiano di oggi non servono più miti su cui irrobustire il proprio pathos d’appartenenza. Un popolo ormai “maturo”, che ha già trovato nell’immediato passato i propri cardini di riferimento, non abbisogna di epiche narrazioni su cui rinvigorire il proprio spirito patrio. Ad egli è ormai sufficiente scaricarsi dei propri stress quotidiani. Ha invece ancora bisogno del capro espiatorio, di Schettino, e del melodramma che è diventato egli stesso.
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Il popolo italico, almeno nelle sue più radicate sedimentazioni storico-sociali, non è un popolo tragico. Anzi, spesso ha fatto di tutto per trasformare pure le sue tragedie in commedie, specie quelle comiche dell’arte di sapore goldoniano (la fortunata frase di Flaiano: “la situazione politica in Italia è grave ma non è seria”, la poteva pronunciare, appunto, solo un italiano). E’ il popolo dell’operetta e del melodramma, che ricorda i ritornelli e dimentica, troppo facilmente, il suo contenuto lirico, profondo, essenziale. E così si è comportato anche di fronte al naufragio della Costa Concordia del 2012. Con la differenza che ormai oggi egli non è più solamente lo spettatore pagante di una messinscena, seppur tragica come quello dell’isola del Giglio, ma è diventato egli stesso, in una sorta di curiosa legge del contrappasso, parte integrante di quel patetico scenario. Come la commedia aristofanea esige al proprio centro un individuo che si discosti dai parametri comuni, anche la melodrammaticità italica richiede la dismisura, benché completamente integrata, unanime, democratica, per tutti e di tutti. Tutte caricature! E’ questo infatti l’atteggiamento sinistro e smodato che ha alimentato il giudizio morale sull’ex capitano Schettino. Ricordo, a tal proposito, i toni talvolta inquisitori, comunque perentori, invocare persino la pena di morte, o lo spettro della pubblica gogna, per aver abbandonato la nave naufragante (queste valutazioni morali paventavano il giudizio di una superiore legge etica di vago ed ancestrale sapore marinaresco-sociale. Come se il popolo si rifacesse, nei suoi volubili giudizi, ad un Pietro Mocenigo qualunque). Più del danno e delle morti provocate, il popolo del melodramma imputa all’”immorale” ex ammiraglio di non essere, come loro, un cuor di leone, un puro e candido giglio di campo. Eppure forse ci fu un tempo un’altra Italia, un paese magari più ingenuo, ma a cui necessitavano paladini per fortificare il senso d’appartenenza e modelli per puntellare l’ancora fragile unità nazionale. Forse quel Bel Paese, un tempo meno incline a porre il coraggio quale dominus valoriale, avrebbe magari dedicato al comandante pure una piazza, o almeno una via, per quanto secondaria (s’intravede già, in tal senso, una certa riconoscenza italica: la pseudo lectio magistralis a La Sapienza su come gestire il panico). Quella dei celebri eroi dell’”armiamoci e partite” e dell’omicida tattica dell’”attacco frontale”, ad esempio, che ebbe a Caporetto il proprio degno banco di prova ed in Cadorna il proprio brillante stratega (quello che si scandalizzava se i fanti-contadini non erano più disposti a farsi ammazzare, come carne da macello, per lui o per la patria). Oppure ancora quell’Italia che fa dell’encomio ai propri valorosi fuggitivi, quantunque sottaciuto e rasente, un motivo di orgoglio personale e nazionale: dal “tutti a casa” che vede l’8 settembre scappare il Re e il generale Badoglio da una Roma assediata dai tedeschi, al prode Mussolini, che dopo tanta retorica sulla “bella morte” viene catturato mentre s’imboscava, opportunamente travestito da tedesco. Una storia di martiri che, da Bettino Craxi a Marcello Dell’Utri, procrastina sempre più in avanti la conclusione delle proprie res gestae. Da un’Italia che, compiaciuta della propria innocenza, è finita sbrigativamente per reificare alcuni compatrioti per una propria mancanza di “spirito” (nella necessità di sopravvivere a sé stessa ha trovato che era meglio trovare un “uomo forte” a cui delegare le proprie speranze, le proprie illusioni e le proprie responsabilità, così da potersene infine scaricare), è uscita di risulta un’Italia che non ha mai voluto veramente fare i conti con sé stessa, né coi propri ambigui idola Un popolo che ha preferito le retoriche alla verità si comporta, alla fin fine, retoricamente anche nei confronti dello scandaloso Schettino. Si scandalizza però senza avere le carte in regola, privo qual'è di qualsiasi consapevole vergogna: squalifica e disprezza l’ammiraglio senza aver portato alla coscienza il proprio glorioso passato, e senza aver mai nemmeno sentito l’urgenza di vedersela prima con sé stesso. Ma all’italiano di oggi non servono più miti su cui irrobustire il proprio pathos d’appartenenza. Un popolo ormai “maturo”, che ha già trovato nell’immediato passato i propri cardini di riferimento, non abbisogna di epiche narrazioni su cui rinvigorire il proprio spirito patrio. Ad egli è ormai sufficiente scaricarsi dei propri stress quotidiani. Ha invece ancora bisogno del capro espiatorio, di Schettino, e del melodramma che è diventato egli stesso.
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