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Telegiornali, trasmissioni di approfondimento, siti internet e quotidiani hanno parlato tutti dei fatti violenti successi a Roma sabato scorso. Molti di questi hanno raccontato anche di un fotoreporter colpito violentemente alla testa da un mattone lanciato nel mucchio. Del tutto casualmente, la traiettoria della pietra era abbastanza obliqua da non ferire a morte questa persona che si trovava fra i tafferugli per fare il suo lavoro. Sarebbe stato sufficiente che egli fosse voltato di un solo centimetro alla sua sinistra o che l'oggetto lanciato in aria compisse una traiettoria più diretta verso la sua faccia che adesso egli non sarebbe qui a scrivere queste quattro e inutili righe sul suo blog. Per fortuna è andata bene: solo un po' di sangue e alcuni punti di sutura al pronto soccorso. Poi in serata sono tornato a casa e i miei figli hanno trovato perfino divertente vedere sulla mia testa una benda tanto vistosa. Il neonato si è messo a ridere, non riuscendo a decifrare meglio il mio nuovo look, mentre il più grande mi ha chiesto, sempre sorridendo, spiegazioni, al che gli ho detto che avevo soltanto sbattuto. Come spiegare, infatti, diversamente a un bambino ciò che era accaduto poco prima a Roma? Avrei potuto parlargli della pazzia collettiva che può invadere una folla, ma non l'ho fatto perché anzitutto non credo a una simile spiegazione. Oppure avrei potuto riferirgli le mie supposizioni e cioè che la violenza cieca che in uno stesso e unico momento si diffonde in una moltitudine non nasce spontaneamente, dal nulla, ma ha alle sue spalle una regia e occhi ben aperti, capaci di vedere lontano un orizzonte che, chi agisce in prima persona, non arriva neanche minimamente a scorgere. Mi riferisco ai ragazzi incappucciati chiamati 'black bloc' e che, presi singolarmente, non hanno nulla dell'aspetto che all'interno del loro gruppo, quando si muovono in massa, viene loro conferito. Anche di questo volevo parlare e della contraddizione che questi giovani incarnano, quando ieri sono stato intervistato nell'Arena di Massimo Giletti, ma poi non c'è stato modo di farlo perché - come è noto - i tempi televisivi sono stretti e si hanno davvero pochi minuti soltanto a disposizione per rispondere anzitutto alla domanda che ti pongono. Ho parlato con alcuni di questi ragazzi, chiedendo loro perché non volessero essere ripresi dalle telecamere o essere fotografati, dato che erano tutti con il volto coperto. Ho chiesto loro inoltre perché erano lì a fare quel casino e ho domandato loro in cosa credessero, se avessero un ideale, se le loro azioni fossero finalizzate verso un obiettivo preciso. Le risposte che mi hanno dato sono state soprattutto insulti, spintoni, ma qualcuno alla fine mi ha risposto che lui e i suoi amici non credevano in niente e che non erano né di destra e né di sinistra: erano semplicemente degli anarchici. In quel momento ho pensato al termine 'anarchia' e l'ho associato immediatamente a quello di 'libertà'. Ma come si possono - mi sono chiesto immediatamente dopo - identificare libertà e violenza, come è possibile esercitare la libertà violentemente e ai danni della libertà di altri? Ho trovato contraddittorie le loro spiegazioni, così come può essere contraddittoria e assurda una pietra lanciata a caso, verso un mucchio di passanti. Presi singolarmente - dicevo - quando vengono acciuffati dalla polizia o da un gruppo di persone esauste e arrabbiate nell'assistere a tanti atti vandalici contro la loro città, questi ragazzi sono gracili e impauriti, disarmati e indifesi. Appena possono, se ce la fanno, scappano da chi vorrebbe picchiarli per rifugiarsi di nuovo all'interno del loro cerchio che li protegge. Questi ragazzi sono ciechi senza spiegazioni da dare e soltanto quando stanno nel loro gruppo sembrano avere una strategia: ogni azione assurda è avvalorata dal consenso unanime degli altri, ogni sasso che vola per mano di uno è alleggerito dall'accordo degli altri e dai loro sguardi taciti e ammirati. E' in questo modo soltanto che la follia, quando non può essere spiegata, può venir giustificata ovvero quando è collettiva e quindi diventa norma.
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