Da qualche giorno, quando posso, proseguo con la lettura del libro “Scrivere zen” di Natalie Goldberg.
Molto americano. Nel senso che spesso gli statunitensi hanno un approccio davvero molto pratico all’argomento che desiderano trattare, quindi partono dal principio.
Per esempio: un breve capitolo è dedicato a penne, carta, con consigli su quale scegliere, e come. Confesso che quando l’ho letto ho pensato di aver fatto un acquisto sbagliato.
Così anche dopo, quando l’autrice parla della scrittura come una sorta di medicina, di strumento per raggiungere l’equilibrio. D’altra parte, da un libro che ha la parola “zen” nel titolo, non ci si può aspettare altro, giusto?
Eppure funziona. Non credo molto nel potere terapeutico/taumaturgico della parola. Ma adesso sto leggendo una serie di capitoli dedicati ai dettagli. Utili, intelligenti.
Lo scrittore è anche quello, in fondo. Una persona che osserva, e che chiama con nome nuovo quello che vediamo ogni giorno. Che è capace di uno sguardo inedito, di una parola che incendia.
I capitoli sono sempre brevi; alcuni nemmeno una pagina, altri due, tre. Trapela la determinazione dell’autrice a trattare la scrittura come un dono da offrire agli altri. Non so bene quale possa essere alla fine l’utilità di una simile lettura. Non lo sto sminuendo, anzi: mi piace.
Però so che la parola ha la capacità di scavalcare recinti e resistenze, oppure di fermarsi al primo ostacolo, o gradino. In un certo qual modo è imprevedibile.